
“Un Lupo di Mare” di Fabio Sabatini: viaggio nell’anima e nell’asfalto
Emanuele non fugge. Emanuele sceglie. Mette tra sé e il mondo la distanza giusta: quella che si misura in chilometri, ma che pesa in anni, in perdite, in silenzi. In sella a Berta, la sua motocicletta – non un mezzo, ma una compagna –, inizia un viaggio che è pelle, metallo e respiro. Non è una fuga, né un ritorno: è un atto di verità.
Le strade attraversano Corsica, Camargue, Appennini, Giappone, ma il punto d’arrivo è sempre uno solo: se stesso. Ogni incontro è una curva dell’anima. Le donne che lo hanno toccato (Paola, Minako) non sono figure romantiche, ma epifanie. Ognuna lascia un segno, un cambiamento. In particolare, Minako, delicata e muta come il Giappone che la contiene, offre un’intimità fatta di piccoli gesti, di silenzi che pesano più di mille parole.
Sabatini scrive senza filtri, in una prima persona che non ha bisogno di giustificazioni. Il suo stile è secco, affilato ma empatico. Nessuna parola di troppo, nessuna posa. Le emozioni emergono come fenditure nella roccia: improvvise, autentiche, impossibili da ignorare. I capitoli sono brevi, sospesi, quasi come se l’autore ci invitasse a fermarci, a riflettere, a respirare tra un ricordo e l’altro.
C’è una mascolinità ferita ma non negata in questo libro: Emanuele non è un eroe e non è un perdente: è uno che ha vissuto, che ha amato, che a volte può anche aver fallito, e che ora sta cercando non redenzione ma una lucidità verità. La moto non è metafora: è rifugio, è pelle aggiuntiva, è punto fermo in un mondo che cambia troppo in fretta.
Il protagonista di Un Lupo di Mare ha smesso di correre per gli altri, con la sua moto, che non a caso ha il nome di una donna (Berta) e una manciata di ricordi ancora caldi, parte per un viaggio che non ha meta, ma ha senso: vivere secondo il proprio ritmo, lontano dai compromessi.
Strada dopo strada, luogo dopo luogo, la memoria si intreccia alla musica: brani scelti con cura accompagnano il lettore come colonna sonora emotiva sempre esatta. Ogni canzone è una tappa, un’eco di qualcosa che è stato o che non tornerà.
Emanuele è un uomo in viaggio in sella a Berta, la sua motocicletta, una compagna, muta ma eloquente. È lei la vera testimone dei suoi pensieri, la sola a cui non mente mai: è presenza viva, corpo e anima di metallo.
La costante, la rotta segreta è tracciata dalle donne.
Emanuele è un uomo che ha amato. Con la stessa radicalità con cui ha attraversato i paesaggi: senza compromessi. Paola, incontrata per caso che ha lasciato dietro sé la scia del “forse”.
Ma è Minako, la donna giapponese, l’incontro che più incide.
Lei non appare come le altre. Minako si insinua piano, con la delicatezza di un fiore di carta che resiste alla pioggia. Non urla, non chiede. È tutta silenzi e rituali. Con lei, Emanuele non ha bisogno di raccontare: può semplicemente essere. I capitoli che la riguardano sono i più quieti e i più vertiginosi. L’intimità che condividono è sottile ma devastante. E quando sparisce, anche lei, lo fa come tutto il resto nella vita di Emanuele: senza spiegazioni, senza ritorni, lasciando tracce incancellabili.
C’è anche un’altra creatura che segna una pagina struggente della vita del protagonista: la sua gattina Miciù, piccola compagna affettuosa e silente. Un capitolo le è dedicato, e in quelle pagine il libro tocca forse la sua vibrazione più intima. È con lei che Emanuele sperimenta la cura, la responsabilità affettuosa, la perdita più pura. Il distacco, in quel caso, è muto e totale come il dolore che non ha bisogno di parole.
Lo stile di Sabatini è essenziale, quasi spoglio, ma proprio in quella nudità trova la sua forza
Un lupo di mare si colloca nel solco della narrativa di introspezione che ha avuto grandi esempi nella letteratura italiana e internazionale. Viene spontaneo accostarlo a Marco Lodoli ma anche a Joseph Conrad per la tensione tra l’ uomo e il mare come conflitto esistenziale. Tuttavia, Sabatini non cerca l’epica della navigazione: il suo è un mare quotidiano, vissuto e interiorizzato.
Il libro dialoga sottilmente con l’universo poetico di Franco Cassano e il suo Pensiero meridiano, soprattutto per il rapporto tra tempo lento e consapevolezza del limite. Emanuele è un uomo che ha attraversato il mondo ma che ha trovato, nella piccola dimensione della riva, la profondità dell’umano. Il tema della memoria incarnata nei luoghi, caro a Erri De Luca, si ritrova in questo testo ma senza tensione mistica: qui tutto è più disincantato, più concreto, eppure densissimo.
Sabatini sembra voler affermare, con dolce fermezza, che la dignità dell’esperienza può ancora trovare forma e voce nel racconto, nella frase scarna, in un’osservazione minuta su una rete da pesca, un bicchiere di vino o un’alba sul molo.
Il racconto di Fabio Sabatini si inserisce con grazia e consapevolezza in una tradizione letteraria che ha fatto della solitudine, della memoria e del simbolismo i suoi punti cardinali. Non si tratta di semplici citazioni, né di omaggi espliciti: i richiami sono profondi, strutturali, a volte sotterranei. È come se le voci di Hemingway, Pavese e Conrad facessero da eco silenziosa a ogni parola scritta, restituendo al testo quella densità emotiva che lo rende molto più di una narrazione minimale.
Lo stile di Sabatini è essenziale, quasi spoglio, ma proprio in quella nudità trova la sua forza. Come nei diari pavesiani o ne La casa in collina, la parola diventa carico emotivo più che descrizione. I sentimenti non vengono dichiarati, ma si insinuano tra le righe, suggeriti più che mostrati. E il paesaggio e la ricerca continua del “fine terra” non è mai semplice contesto ma è una proiezione dell’anima, uno specchio del vuoto, una superficie che restituisce ciò che il protagonista non riesce o non vuole più dire. È lì, in quel confine tra la terra e il silenzio, che avviene l’autenticità: una soglia che si varca senza certezza. Un eterno stare sulla soglia, dove ogni gesto è già ricordo e ogni incontro ha il sapore di un ultimo abbraccio.
E in tutto questo cosa ci lascia il testo? L’idea che la marginalità non sia necessariamente un fallimento, ma possa essere uno spazio fertile, una condizione privilegiata per vedere meglio. Che la comunicazione più profonda non è quella fatta di parole, ma quella che nasce dallo stare insieme, anche solo su una panchina, a dividere il pane. Che la solitudine, come il mare, non è sempre nemica: può essere uno specchio onesto, una compagna che non giudica.
Un Lupo di Mare non è un racconto da decifrare, ma da ascoltare. Come si ascolta il mare, da seduti, in silenzio, lasciandosi bagnare dal vento. È una storia che non cerca spiegazioni, ma condivide una presenza. E quando si chiude l’ultima pagina, resta dentro qualcosa che somiglia a una tregua. Una tregua col mondo, e forse anche con sé stessi.
La bellezza della scrittura sta nel ritmo interiore
Lo stile di Sabatini in Un Lupo di Mare è diretto, personale, e profondamente intimo. Il racconto è scritto in prima persona, e questa scelta non è casuale. È proprio grazie a questa voce narrante così vicina, così priva di mediazioni, che il lettore viene trascinato dentro un flusso di pensieri, sensazioni, gesti. Tuttavia, accanto a questa voce interna, si percepisce a tratti una focalizzazione più ampia, quasi una forma di onniscienza emotiva: non c’è un narratore esterno, ma l’autore riesce a dare profondità anche a ciò che Emanuele non dice, a ciò che sfugge al suo controllo, restituendo un senso di consapevolezza diffusa, che si estende agli spazi, agli altri personaggi, al silenzio stesso
Il tono è quello di una confessione sommessa, mai teatrale. È un racconto immersivo, quasi una lunga riflessione ad alta voce, dove non esiste confine tra l’io narrante e l’esperienza narrata. Non ci sono spiegazioni, né digressioni inutili: solo una voce che ci accompagna lungo il suo itinerario interiore, fatto di silenzi, salsedine e piccoli incontri che hanno il peso delle grandi verità.
Ogni scena è attraversata da questa presenza costante e lucida del narratore: l’uomo che parla è lo stesso che agisce, che osserva, che si ricorda, e tutto passa attraverso la sua sensibilità. Anche i due ragazzi africani, Adama ed Awa, ci arrivano filtrati attraverso il suo sguardo: li vede, li ascolta, li riconosce. Non serve che racconti tutta la loro storia perché dai loro gesti la comprende e la narra.
La prosa è semplice ma carica di risonanze, fatta di frasi brevi, dialoghi essenziali, immagini precise. Non c’è compiacimento, né ricerca estetica forzata. La bellezza della scrittura sta nel ritmo interiore, nella verità che trasmette anche quando non dice tutto.
Anche i dettagli — come il rapporto con Berta, la moto che è casa, compagna, rifugio — diventano strumenti narrativi potenti. Non c’è mai retorica nell’affetto che lega il protagonista al suo mezzo.
La temporalità del racconto è lineare, ma impregnata di memoria. Il passato affiora in superficie senza bisogno di flashback strutturati: è dentro ogni gesto del presente, come un’eco mai del tutto svanita. Così, il mare che il protagonista guarda ogni giorno non è mai lo stesso, eppure è sempre identico. Cambia con lui, muta come l’umore, accompagna ogni pausa, ogni parola non detta.
In definitiva, Sabatini costruisce un racconto fortemente soggettivo, emotivamente sincero, e stilisticamente coerente. È la storia di un uomo che non ha più nulla, ma ha ancora lo sguardo, e questo basta a dare senso al mondo.
La struttura del libro è composta da brevi capitoli che possono essere letti quasi come racconti autonomi, ma che, nel loro insieme, costruiscono il ritratto profondo e coerente di un uomo in viaggio, Emanuele, e del suo sguardo sul mondo: il racconto si muove per cerchi concentrici, dove il tempo è sospeso, la memoria affiora e il presente si stratifica in dettagli minimi ma carichi di senso.
Lo stile è essenziale, nitido, a tratti aforistico. Il lessico è semplice ma mai banale, e ogni frase sembra scolpita più che scritta. I dialoghi sono brevi, spesso ellittici, mentre le descrizioni sensoriali – odori, suoni, – creano una dimensione immersiva, quasi tattile. I tempi verbali prevalenti sono il passato prossimo e l’imperfetto, che danno continuità al flusso del racconto e un senso di prossimità emotiva.
I personaggi che Emanuele incontra – da Paola a Minako, fino alla gattina – non sono mai figure decorative: ciascuno riflette un aspetto della sua interiorità. Anche i luoghi, come la strada, il porto, i deserti o le città straniere, non sono semplici sfondi ma specchi del protagonista, veri e propri personaggi secondari. In questo senso, il paesaggio diventa una forma narrativa.
In definitiva, Sabatini costruisce un racconto intimo, contemplativo e narrativamente coerente, in cui la forma riflette la propria coscienza, e la voce dell’autore si confonde – con rispetto e onestà – con quella del suo protagonista.
L’Autore
Fabio Sabatini è nato a luglio del 1955 a Levanto, una cittadina della riviera ligure ai margini delle 5 Terre.
Si cimenta con la scrittura raccontando e romanzando esperienze della propria vita, da cui nascono alcuni romanzi tra cui “Vietato ai Minori” e “Chernobyl”.
“Un luplo di mare” è la sua prima opera pubblicata, tramite il Gruppo Editoriale WritersEditor.
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L’ autore è rappresentato da Lo Specchio dell’arte di Manuela Montemezzani