08/07/2025

Incontri e Racconti a cura di Edoardo Palumbo

Arriva la Primavera, escono fuori i germogli, i fiori e il canto dei merli.

Si risveglia la naturaleza e noi, vuoi o non vuoi, ci facciamo caso e siamo più contenti.

Il verde, il canto dei passeri e la coccinella che ci si poggia sulle mani, ci provoca un sentimento lieto, di serenità e tepore.

Ci fa pensare che la natura, malgrado la prendiamo a pugni ogni giorno, in fondo è la vera risposta, e ci regala una soddisfazione gratuita, più vera dell’acquisto di un qualsiasi bene di lusso.

Per questo sono andato in Amazzonia, per vedere la natura moltiplicata all’ennesima potenza. Per moltiplicare quel sentimento di serenità, in teoria, al massimo dell’intensità.

Ma la selva, per quanto incarni nel legno, nelle foglie e negli animali le proprietà dell’abbondanza, della rigogliosità e in ultima della Vita, non è certo lieve come il boschetto incolto dietro casa.

Anzitutto, la selva è verde. Verde scuro. Non ci sono fiori. Gli alberi hanno tronchi così massicci che non ci si riesce nemmeno ad abbracciarli. I rami e le rampicanti sono intersecati, intricati in modo severo, impenetrabile, indifferente ad appagare i nostri ideali di armoniosità e gentilezza delle proporzioni.

E poi, la selva è buia, asfissiante, non si vede mai il cielo perché le fronde sono ovunque, avvolgenti e penetranti.

Non c’è la radura che rischiara i pensieri, la luce del sole che illumina l’animo. Mai.

Natura, natura, natura, che ci ricorda che in fondo siamo piccoli e fatti di carne, merenda ambulante per insetti, zanzare, giaguari, caimani.

Tuttavia, gli indios ci vivono lì da millenni. Sanno come tirare fuori l’acqua dagli alberi, conoscono le piante che curano il mal di pancia, sanno come insaporire i pesci che pescano nei laghetti naturali che si formano ai lati del rio.

Gli indios, oggi, rivogliono parte dei loro territori. Chiedono al governo colombiano la proprietà collettiva, una condizione catastale simile alla riserva.

Mi sono unito alla causa, agli avvocati indios, a quelli che lavorano nell’amministrazione pubblica, anche ammanicati con piccole o alte cariche statali.

È un processo che coinvolge vasti territori, migliaia di ettari.

Spesso si vince, e porzioni ingenti di selva vengono affidate alla cura dei Tikuna, dei Huitoto, dei Kokama.

Ma anche qui, non sono mancati i casi contraddittori.

Sulla carta, gli indios rivogliono la selva con il proposito di preservarla, e preservare al contempo la loro cultura.

Ma un gruppo di questi, una volta che ha ottenuto il territorio ha deforestato tutto, per farci la miniera di carbone.

E la natura, e la Vita?! Diremmo noi.

Quella terra era nostra, ci è stata depredata e ora ce l’abbiamo di nuovo noi, quello che ci facciamo sono fatti nostri, è la nostra terra, hanno risposto loro.

Gli avvocati e i funzionari indigeni ai quali mi sono accompagnato, cercavano anche loro di reclamare le terre. Ma poi, alla fine dei conti, chi vuole andare a vivere nella foresta?! Le persone che cercavo di aiutare, erano prima indigeni o prima avvocati?

Una cosa è certa, proteggere la cultura indigena significa proteggere la selva, perché gli spiriti e le storie degli indios vivono solo tra quegli alberi, spuntano fuori solo da quelle sorgenti.

Allora, i veri indios a questo punto sono solo i “non contattati”, quelli che contro il capitalismo a forma di ruspe e dighe si sono addentrati nelle regioni più vergini, più primigenie, insieme alle fiere senza un nome e le piante antiche, sagge come il mondo.

Nella Natura e parte di essa, che per quanto possa apparire spietata ai miei occhi di occidentale piccolo borghese, è ancora e sempre meglio degli Esseri Umani.