
Ciro Lomonte: La ribellione della bellezza come atto identitario
Intervista a Ciro Lomonte, architetto, docente universitario, saggista e presidente dell’Assemblea Nazionale del partito Siciliani Liberi. In questo dialogo, Lomonte riflette sull’importanza della cultura e dell’identità siciliana, sulla centralità della bellezza come forma di resistenza e sul ruolo dell’arte, dell’architettura e della memoria storica nel processo di autodeterminazione dell’isola. Un confronto che intreccia visione politica, pensiero filosofico e passione civile.
- Professore Lomonte, quando parla della “ribellione della bellezza” come chiave per risvegliare la coscienza identitaria dei siciliani cosa intende? In che modo l’arte e l’architettura siciliane possono fungere da strumento per questa ribellione pacifica?
A partire dal 1816, anno della soppressione illegittima del Regno di Sicilia – il più antico regno parlamentare del mondo – ad opera di Ferdinando III di Sicilia (IV di Napoli), e ancor più a partire dal 1860, anno dell’annessione fraudolenta al Regno di Sardegna per mano di Garibaldi, i siciliani si sono ribellati parecchie volte ma senza successo, anche perché abbandonati dalla comunità internazionale. Esclusa una reazione militare al colonialismo imperante da 210 anni, resta la possibilità di una ribellione culturale. Lo studio delle specificità, della ricchezza, della densità, della bellezza della nostra arte – intrinsecamente siciliana – ci può guidare per mano ad una consapevolezza nuova della nostra natura di popolo e di nazione. La grande truffa dei Borbone prima, dei Savoia dopo, della Repubblica Italiana adesso, è la propaganda insistente secondo la quale i siciliani non sono mai stati protagonisti della propria stessa storia. È una menzogna pacchiana. Dominazioni? Casomai dovremmo parlare di passaggi dinastici.
La Sicilia oggi è come un bellissimo albero, con alcuni rami spezzati dalla furia degli elementi, da tempeste violente e inconsuete rispetto alla sua storia plurimillenaria. Le manca la chioma rigogliosa che la coronava in altre epoche. Ci diranno che i siciliani in realtà non esistono, che quelle fronde e quel fogliame erano di altri popoli, quelli che ci hanno “conquistato” e “dominato”. Ma non è vero. La civiltà di Palermo, la civiltà degli innumerevoli bellissimi centri urbani della policentrica Sicilia, è come il mandorlo. Questa specie arborea (il prunus dulcis) è antichissima. Alcuni dicono che sia autoctona, altri importata dai fenici. Produce un seme prelibato, migliore di quello californiano, ottimo per la pasta reale, per i confetti, per il latte di mandorla e per altro. Vi si possono innestare ciliegio, pesco, albicocco e susino. Le civiltà giunte da fuori sono proprio questo: sono innesti che hanno prodotto frutti unici e saporiti perché il portainnesto era il nostro, quello della mente riflessiva, dell’occhio sognatore, della mano meticolosa e irrequieta dei nostri artigiani. È vero che è giunto più di un gene artistico dall’esterno (greci, romani, bizantini, persiani, normanni, catalani, aragonesi), ma ciascuno di essi ha subito modifiche sostanziali, perché il genotipo – nell’interazione con il nuovo ambiente dell’Isola – ha modificato il suo fenotipo. Sono i geni che forniscono le caratteristiche di base, la nostra terra e il nostro sole fanno la differenza.
La pianta è viva, anche se hanno fatto di tutto per sradicarla. Il mandorlo è vivo. Forse è giunto il momento di smetterla con l’introduzione di nuove varietà, come succede nella frutticoltura. Forse sta per scoccare l’ora in cui comincerà a produrre arte siciliana sic et simpliciter, senza altre aggettivazioni. È quello che stanno cercando di fare da nove anni i Siciliani Liberi.
- Lei sottolinea come l’arte siciliana abbia sempre saputo trasformare influenze esterne in forme uniche. Quali aspetti della produzione artistica contemporanea crede che possano continuare a rappresentare questa capacità trasformativa?
Nella famosa Mappa Mundi con filigrana antropomorfica di Ebstorf (metà del XIII secolo) la Sicilia era rappresentata come cuore del mondo. Non era ancora stata scoperta l’America e le condizioni erano molto differenti rispetto a quelle attuali. Tuttavia la Sicilia può essere anche oggi il cuore del mondo, un mondo molto complicato. Nonostante le molteplici crisi della modernità, non solo di matrice nietzschiana o esistenzialista, il pensiero continua ad essere dominato da un orgoglioso principio di immanenza. Persiste un radicale scetticismo gnoseologico in base al quale non si sa se la realtà esista e se gli esseri umani possano conoscerla così com’è. Sembra che esista solo l’io pensante. Se non possiamo esprimere la verità, abbiamo difficoltà a definire pure la bontà e la bellezza. La stessa ansia di novità chimeriche, sempre più mostruose, ha i piedi d’argilla del dubbio metodico.
In questo contesto è interessante constatare come il popolo siciliano nutra una diffidenza congenita, a pelle, nei confronti dell’illuminismo esoterico. Qui anche la vita delle persone semplici è sostenuta dalla filosofia del senso comune, che consente di ripartire dall’essenza della realtà. Non è che qui siano tutti immuni dalle più avvilenti patologie dell’animo umano, ma di per sé il sole siciliano e l’aria che qui si respira favoriscono la coltivazione della metafisica dell’atto di essere. Lo spirito siciliano è un valido antidoto ai virus della globalizzazione, che tendono a ridurre tutti ad una massa di consumatori ignari del valore intimo delle cose. Qui esiste ancora un ammirevole e multiforme artigianato di eccellenza, in grado di creare prodotti unici e di garantirne la durata e la manutenzione in tempi illimitati. Può essere la base per la rinascita dell’arte, al di fuori dei circoli tribali ed autoreferenziali delle elucubrazioni cerebrali. La vita umana è resa più amena e gradevole dalla bellezza, dall’armonia, dallo stupore duraturo, non dai pruriti intellettualistici. Potremmo dire che i colori dei templi sicelioti o dei paliotti del nostro barocco siano indicativi della solarità della nostra arte. Per certi versi il bianco degli stucchi dei Ferraro o dei Serpotta è più ricco di cromie della tavolozza chiassosa e folkloristica di un Guttuso, piegato alla colonizzazione culturale italiana, che ci rappresenta tutti con la coppola e la lupara, biascicando frasi alla Montalbano, irrispettose della nobilissima lingua siciliana.
- Il barocco siciliano viene descritto come espressione dell’identità locale. Crede che la valorizzazione di questa eredità possa contribuire a un nuovo “Rinascimento” culturale per la Sicilia?
Il barocco è più congeniale all’animo siciliano, per diversi motivi. Il rinascimento no, nella misura in cui è algidamente razionalista, tenendo conto che giganti di quell’epoca – come Leonardo da Vinci o Michelangelo Buonarroti – erano tutt’altro che guidati da un freddo approccio analitico. Se consideriamo la variante più rigida del classicismo, i danni arrecati alla Cattedrale di Palermo dalle pesanti trasformazioni operate da Ferdinando Fuga sono gravissimi. Va rilevato che in Sicilia si è sviluppato maggiormente, non a caso, il manierismo, in una versione molto più umana e popolaresca, che ripartiva dalla realtà, rispetto a quella più alchemica e aristocratica della Toscana. È la resistenza del buon senso. Il barocco siciliano è l’esaltazione dell’Incarnazione del Figlio di Dio, è la valorizzazione della materia creata, sia essa natura inanimata oppure corpo umano. Non va confuso con una certa tendenza alla tetraggine rilevata negli studi etnoantropologici di Giuseppe Pitrè: quella non è la Sicilia autentica, quella è la vigile malinconia di un popolo costretto all’emigrazione (fenomeno mai registrato nei millenni precedenti al 1860) e alla sottomissione. Il barocco siciliano, nella variegata serie di declinazioni locali (Naro, Trapani, Palermo, Messina, Val di Noto, per citarne solo alcune), è la manifestazione artistica di uno dei periodi di maggiore benessere economico e di vivace elaborazione culturale. Esprime vivacemente le inclinazioni più peculiari dell’arte siciliana: cromatismi accesi, cura sorprendente dei dettagli, valorizzazione delle materie prime più o meno preziose, proporzioni delicate, sapiente inserimento nella natura (una natura già di per sé esuberante) o mimesi gioiosa della stessa, solidità e resistenza alle intemperie, gusto burlone per la sorpresa non strombazzata. Con riferimento specifico all’arte sacra, va sottolineata la predilezione per tutto quanto evidenzi la filiazione divina, una tenera fiducia nella paternità misericordiosa di un Dio che accoglie sempre i Suoi figli, anche quando sono irrequieti e prodighi di monellerie, come i bambini di Giacomo Serpotta. Sono tutti principi che possono guidare la rinascita dell’arte siciliana contemporanea, senza inciampare nell’equivoco delle copie anacronistiche.
- Professore, secondo lei, quali opere letterarie siciliane contemporanee stanno contribuendo maggiormente a rafforzare l’identità culturale dell’isola? E quali autori del passato ritiene imprescindibili per comprenderla pienamente?
Un nome per tutti: Alessandro D’Avenia. Pur essendosi trasferito da tempo a Milano, conserva un’indole profondamente siciliana, che si traduce in una scrittura scintillante, ricca di aggettivazioni, allitterazioni, chiasmi, gusto per etimologie sconosciute o inedite. I suoi personaggi fanno riferimento a prototipi letterari famosi, ma sono modellati a tutto tondo in modo da risultare credibili, autentici ed umani, liberi da schemi ideologici. Bianca come il latte, rossa come il sangue, il suo romanzo d’esordio del 2010, rimane esemplare per stile, trama e personaggi. Il libro è stato tradotto in diciannove lingue e ha raggiunto il milione di copie nei primi mesi del 2013, diventando così un best seller internazionale.
Dalla scuola poetica siciliana a Giovanni Meli c’è tutto un fiorire di grandi scrittori nella nostra lingua materna. Negli ultimi duecento anni ci sono veri e propri giganti della letteratura che impiegano l’idioma dantesco (Verga, Pirandello, Quasimodo, Tomasi di Lampedusa, Sciascia), condizionati tuttavia dall’amarezza generata dal colonialismo italiano. Fa riflettere molto l’intervista del 2009 di Salvatore Ferlita a Kazuo Ishiguro, il famoso premio Nobel per la letteratura.
«Sono curioso di scoprire perché la Sicilia ha prodotto così tanti scrittori di livello mondiale, quando il continente d’Italia è riuscito a fare ciò a stento. L’Italia ha una magnifica tradizione artistica, naturalmente, e nell’era moderna una grande tradizione cinematografica, ma deve molto alla Sicilia per i grandi scrittori».
«Ho visitato l’Isola per la prima volta cinque anni fa, quando ho trascorso alcuni giorni molto piacevoli a Taormina con la mia famiglia. Sono stato colpito dalla fantastica bellezza del paesaggio naturale, non solo di quello che circonda Taormina, ma soprattutto quello delle aree circostanti. Infatti, non siamo stati fermi in città, ma con la macchina abbiamo girato parecchio. Dinnanzi ai miei occhi si è materializzato un affascinante mix di influenze europee e nordafricane, anche se va detto che la Sicilia è una terra unica, autentica, con una sua propria identità».
«Io e mia moglie visitiamo l’Italia regolarmente, ma solo in Sicilia noi siamo rimasti sorpresi di quante cose diverse, immaginabili, ci sono. La cosa che ci impressionava, soprattutto, era che la gente si comportava ed appariva diversamente, per la strada come a tavola».
«Forse c’è una immagine stereotipata della Sicilia e della mafia che proviene da film come “Il Padrino”, ma penso che per la maggior parte delle persone la Sicilia sia molto più di questo. Gran parte di quanti mi circondano, con cui ho la possibilità di confrontarmi, pensa ad una bella isola di cultura con una miscela di selvaggio e di sofisticato, con una ricca e propria storia, un travagliato rapporto con il continente d’Italia, che in qualche modo ricorda il rapporto tra l’Irlanda e la Gran Bretagna. La sorprendentemente ricca eredità letteraria ricorda proprio l’Irlanda».
«L’Italia deve molto alla Sicilia per i grandi scrittori. Perché è successo tutto ciò? È una domanda interessante che vorrei fare io a lei. Ma adesso devo andare a finire i bagagli, la macchina sarà qui a breve ed è la prima tappa del nostro viaggio. Non vedo l’ora di poter rivedere da vicino la Sicilia».
- L’arte siciliana include una tradizione musicale unica. Quale contributo potrebbero dare le arti performative per valorizzare l’identità siciliana in Italia e all’estero?
Nell’ambito dell’opera lirica possiamo ricordare Alessandro Scarlatti, l’Orfeo siciliano, e Vincenzo Bellini. Più vicini a noi ci sono innumerevoli cantanti e cantautori, come Gianni Bella, Franco Battiato, Giuni Russo, Carmen Consoli, per citarne solo alcuni. Ci sono parecchi artisti emergenti nel campo del jazz, della liuteria, della musica sinfonica. Il talento c’è, oggi mancano le strutture e gli investimenti per coltivare le grandi potenzialità dei giovani siciliani.
Anche il teatro trova qui validi interpreti. Palermo è una città teatrale per essenza, sin dalle sue origini di ampio emporio marittimo. I mercanti sono istrioni per vocazione. Teatralità è caratteristica specifica della sicilianità, non nel senso di maschera, di apparenza, di ipocrisia, bensì nei termini della relazionalità entusiasta, allegra ed enfatica, con un gusto spiccato per l’ironia e il paradosso.
Musica siciliana e teatro siciliano possono favorire la comprensione all’estero, anche in Italia, di questa terra così solare. Già la stanno favorendo. Personalmente sogno che musica, teatro, cinema, si occupino seriamente di alcuni periodi storici estremamente densi e attraenti, come la sfida di Ducezio o la Dinastia degli Altavilla o la Guerra del Vespro o il Quarantotto. I nostri attori dovrebbero potersi esprimere con l’eleganza autentica della lingua siciliana, accantonando una buona volta le caricature pseudo dialettali de Il Padrino o delle serie televisive RAI, tenendo conto fra l’altro che la mafia prima del 1860 non esisteva, come affermano autorevoli studiosi.
- Lei parla spesso del valore catartico dell’arte e dell’importanza di studiarla senza filtri ideologici. Crede che i programmi scolastici siciliani siano sufficientemente orientati alla valorizzazione della cultura locale?
Si fa ancora troppo poco, a cominciare dallo studio della lingua siciliana, sull’insegnamento della quale l’ARS ha già legiferato nel 2009. Innanzitutto però bisognerebbe impegnarsi a promuovere percorsi educativi lineari, in cui i genitori dovrebbero tornare ad essere protagonisti. Si potrebbero valorizzare le attitudini dei bambini con scelte educative opportune, aiutandoli a far emergere i loro talenti sin dalla più tenera età.
Iniziative come Palermo apre le porte hanno permesso agli alunni delle scuole palermitane di scoprire tesori artistici sepolti nel dimenticatoio e di fare loro stessi da guida agli adulti, siciliani e stranieri, per aprire gli occhi su un patrimonio immenso. Ma le scuole possono e debbono fare molto di più, perché quel patrimonio va studiato senza i filtri ideologici del colonialismo. I palazzi nobiliari, per esempio, sono testimonianza di imprenditori aristocratici siciliani, che hanno saputo gestire per secoli coltivazioni e trasformazione di prodotti agricoli, allevamenti, estrazioni di minerali, pesca, oltre ad essere stati formidabili mecenati delle arti e dell’artigianato. Il volume di Alessio Maria Camarda Signorino ed Emilio Messina, Domus Siciliae, Piccolo viaggio sentimentale nel cuore intimo delle dimore storiche siciliane, può aiutare ad approfondire il fenomeno.
Alcuni libri di testo vanno sostituiti. Ci sono ancora sussidiari in cui si legge che i siciliani saremmo mafiosi per natura, affermazione del tutto falsa oltre che inaccettabile. La pseudo “cultura” dominante ha avuto come scopo quello di trasformare i siciliani nel popolo più razzista del mondo, contro sé stessi, autorazzisti. Quando i ragazzi studiano la storia della Sicilia, quella autentica, basata sulle inesauribili fonti d’archivio, si rendono conto di avere un passato glorioso che, più che alimentare nostalgie anacronistiche, giustifica l’orgoglio nazionale e la convinzione di avere le energie per cominciare ad essere nuovamente padroni del proprio destino.
- Quali iniziative concrete pensa possano essere intraprese per preservare e promuovere l’immenso patrimonio culturale siciliano, spesso abbandonato o poco valorizzato?
C’è un equivoco piuttosto diffuso: la cultura produce ricchezza. Di solito avviene esattamente il contrario: la ricchezza produce cultura. Se guardiamo ai millenni della storia siciliana notiamo proprio questo dato: la Sicilia è stata ricchissima fino alla recente colonizzazione italiana, tanto da attrarre nei millenni consistenti flussi di immigrazione, ben integrati nel tessuto demografico autoctono. È questo magnifico benessere che ha prodotto capolavori in tutte le arti. Non si spiega altrimenti la strepitosa densità di palazzi, chiese, monasteri, giardini, botteghe di artigiani di grande valore.
È proprio questo il nocciolo della questione: le risorse esigue a disposizione della Sicilia contemporanea. Abbiamo troppe opere d’arte realizzate in passato da siciliani. Oggi è molto difficile garantire tutela, manutenzione, restauro di questo incommensurabile patrimonio. Che fare? Limitandoci al caso dei palazzi nobiliari, occorre attribuire ad essi uno scopo nuovo e coerente, laddove non ci sono famiglie patrizie ancora in grado di mantenerli. Oppure assecondare l’arrivo di aristocratici dall’estero, processo già in corso. Di sicuro non possono essere trasformati tutti in musei.
Un discorso analogo va fatto per l’enorme numero di chiese, monasteri, conventi, oratori, per lo più concentrati nei centri storici, dove il numero limitato di abitanti non giustifica l’apertura al culto di tutti questi capolavori di architettura sacra. Vanno trovate nuove destinazioni coerenti, considerato pure che esiste una sorta di vocazione architettonica. Una chiesa ben riuscita sarà percepita sempre come una chiesa, non può essere trasformata in un locale di ristoro e neppure in una moschea. Possono invece essere impiegate per ripristinare alcune maestranze di artigiani e per una pastorale specializzata (la chiesa degli avvocati, la chiesa degli imprenditori, la chiesa dei giornalisti, e così via dicendo).
- Professore Lomonte, la Sicilia ha ispirato artisti e scrittori di tutto il mondo. Cosa crede che renda l’isola così unica da diventare una musa universale?
Non solo artisti e scrittori, anche registi. In questo momento Christopher Nolan sta girando la sua versione dell’Odissea fra le Eolie e Favignana.
La Sicilia è un paradiso terrestre, coccolato dal mare che la cinge e accarezzato dal sole che non si stanca di bearsene, con una orografia multiforme, che non finisce di sorprendere. Dalle sue scogliere alle sue valli, dai suoi vulcani ai suoi fiumi, si rincorrono gli echi di miti, leggende, storie, sogni, che fanno palpitare i cuori di chi abbia occhi per guardare e orecchie per ascoltare. Ci sono millenni di avventure dei siciliani da raccontare. Per non parlare delle sue gustosissime tradizioni culinarie.
Bisogna evitare di snaturare e mortificare la Sicilia rappresentandola in modo scorretto. Esistono fin troppi luoghi comuni su questa terra e sui suoi abitanti. Questi possono ispirare comici sguaiati e scrittori alla ricerca di un pubblico superficiale, volgare e distratto. Ma la Sicilia è luogo comprensibile a intelligenze acute e animi sensibili. Casomai bisogna educare quel pubblico meno coltivato ad elevarsi. Persino i nostri agricoltori e i nostri artigiani hanno la dote della narrazione accattivante, condita di riflessioni filosofiche.
- Come ritiene che si possano coinvolgere maggiormente i giovani siciliani nella riscoperta e nella valorizzazione della cultura e dell’arte della loro terra?
I giovani sono creativi e hanno ampiezza di orizzonti, perché sono viaggiatori dell’innovazione. Bisogna fare di tutto affinché questi viaggi non siano obbligati, per l’urgenza di trovare un lavoro che la Sicilia oggi non offre. Sono troppi i ragazzi che emigrano – prima con era così – per andare a studiare in Università a volte meno eccellenti di quelle siciliane ma sicuramente più collegate al tessuto produttivo. L’Isola si sta spopolando, drammaticamente.
La cultura e l’arte possono costituire una grande risorsa, perché i giovani possono fare leva sul nostro patrimonio per attrarre numeri sempre più elevati di viaggiatori colti in Sicilia. Il turismo di massa ha da poco scoperto questa terra, ma non è quello l’ambito su cui investire. Il turismo cosiddetto “mutandaro” è dannoso. Le orde in canottiera, bermuda e infradito che scendono dalle navi da crociera hanno un approccio mordi e fuggi, da frettoloso consumo di emozioni, che non arricchisce la loro cultura e devasta il territorio. Il viaggiatore consapevole invece ha il gusto di relazionarsi con i luoghi e con gli abitanti, in un rapporto di reciproco scambio estremamente appagante.
Se i nostri ragazzi sapranno sollevare e scostare sempre di più il velo degli stereotipi che nasconde la natura unica della Sicilia e del suo popolo, qui arriveranno famiglie e gruppi di cercatori dell’umanità che torneranno alle rispettive case entusiasti delle esperienze fatte.
Per dare un futuro ai giovani siciliani, senza che siano costretti ad emigrare, occorre anche sviluppare l’economia locale in tutti i settori. Questo tuttavia è un tema delicato. Il nostro futuro non dipende soltanto da noi, c’è chi dall’esterno pretende che noi restiamo un mercato dei loro prodotti, senza produrre nulla di nostro.
- Quale consiglio darebbe ai giovani artisti, scrittori e musicisti siciliani che desiderano raccontare la loro isola attraverso la propria arte?
Ne conosco davvero tanti. E li ammiro. Ritengo essenziale che loro coltivino la propria autenticità di artisti siciliani. Può sembrare paradossale, ma è proprio così che eviteranno il provincialismo. Il peggiore provincialismo dei nostri giorni è quello dell’omologazione. Come diceva un ragazzo ammirevole «Tutti nascono originali ma molti muoiono come fotocopie». Una cosa sono le mode (è bene essere aggiornati sulle conquiste più recenti della creatività), altra cosa è il conformismo, soprattutto in un’epoca in cui veniamo spinti ad essere massa decerebrata.
I nostri creativi hanno bisogno di coltivare la libertà di spirito, spezzando le catene del pensiero unico dominante, dei mezzi di comunicazione e dei social più servili, dell’istruzione nozionistica o ideologica, dell’appiattimento culturale. L’indipendenza di giudizio può costare cara, può rallentare o impedire del tutto ottenere successo, ma è molto gratificante perché consente di raggiungere il cuore del vero, del buono, del bello. E questo dà felicità. E questo è radicalmente siciliano.
Ciro Lomonte, architetto, docente, saggista, nel 2017 e nel 2022 è stato candidato sindaco di Palermo per il partito Siciliani Liberi, di cui è stato eletto Presidente dell’Assemblea Nazionale nel 2024.