
“Archipainting: tra forma e visione” di Michele Omiccioli
Articolo a cura di Francesco Caracciolo
A Milano un’entusiasmante mostra, all’insegna delle visioni architettoniche di Michele Omiccioli, ha aperto i battenti in questi giorni presso lo spazio The Warehouse in Via Lodovico Settala 41. L’esposizione, dal titolo “Archipainting: tra forma e visione”, accoglierà diverse opere di Michele Omiccioli, tra gli artisti più interessanti nel panorama figurativo contemporaneo italiano, e sarà fruibile al pubblico dal 2 al 18 aprile 2025.
L’artista marchigiano nasce a Fano nel 1981 e si laurea in Lettere moderne nel 2005; dopo aver maturato una solida esperienza come scrittore, Michele intraprende una brillante carriera artistica iniziando a dipingere da autodidatta attraverso lo studio delle Avanguardie del Novecento, tra cui spiccano particolarmente l’Espressionismo astratto e il Graffitismo urbano. Artista versatile e originale, Michele Omiccioli inizia a collaborare a partire dal 2002 con diverse gallerie italiane ed estere, ottenendo numerosi riscontri sia in Italia che all’estero: al mese di marzo 2007 risale l’allestimento della grande esposizione presso il Municipio di Norimberga e successivamente partecipa alla fiera Arte Padova nel 2021. Attualmente le sue opere sono presenti in alcune importanti collezioni private e statali, tra cui la Kunsthalle di Norimberga. Notevole è anche la sua attività poetica culminata nella raccolta “Decadi dell’Ovest” del 2004.



Intervista all’artista
- Gentile Michele Omiccioli, riportando in questa sede un pensiero da lei espresso, ovvero ” Una pittura che vuole rappresentare e riflettere, ma allo stesso tempo ammonire sui rischi della rappresentazione passiva di ciò che sembra e di ciò che è”, le chiedo cortesemente di spiegarci meglio questa sua affermazione.
Si tratta di un’affermazione capitale del mio cammino artistico, che ne descrive le caratteristiche fondamentali, soprattutto del mio fare figurazione. Ho sempre viva la necessità di far riflettere lo spettatore sul pericolo insito nella rappresentazione. Molto spesso dipingo cose che potrei definire vagamente ‘espressioniste’ e questa espressività di fondo è collegata ad un avvertimento di pericolo: il pericolo di dare per scontata la rappresentazione stessa, di dire solo ciò che si vede. In realtà si dice sempre ciò che si allude, in arte. È per questo che metto verticali monumenti tradizionalmente orizzontali. Per ribaltare parzialmente il punto di vista ed alludere a un altro uso della visione, a un’altra caratterizzazione pregnante, nascosta. In questo modo, i Colossei divengono simili a ventole, a tritacarni, rivelandone la funzione più profonda, più “politica”, ma potrei citare altri monumenti per me assai interessanti al suddetto scopo. È l’unheimlich, il perturbante, il mio obiettivo. Per tentare di sconfiggere il rischio insito in ogni immagine della sua datità gratuita, che porterebbe solo noia e, in definitiva, renderebbe perfettamente inutile questo mio “sminamento visivo” che compio continuamente.
- Quanto ha contato l’influenza di Basquiat sullo sviluppo del suo percorso artistico?
Basquiat è stato la miccia esplosiva che ha fatto detonare la necessità di dipingere. Il primo periodo, quello dei primi tentativi e delle prime risultanze, è stato ovviamente caratterizzato dal suo stile. Ora posso dire che è l’uomo a ispirarmi più che il pittore. Ho studiato a lungo da autodidatta centinaia di artisti, raccogliendo decine di migliaia di immagini nel corso del tempo, cercando di frullare il tutto in un eclettismo fecondo che potesse affrancarmi dal suo stile unico, e dunque per me pericoloso. Credo di esserci riuscito, in diversi modi. Ma tuttora torno a lui per avere consigli postumi che possano illuminare ulteriormente il mio cammino.
- Qual è l’opera che la rappresenta maggiormente oppure quella più esemplificativa della sua carriera artistica?
Non esiste un’opera maggiormente rappresentativa di altre, e questo perché sono pluri-stilista. Potrei indicare tre opere per ciascun genere – espressionista, astratto, figurativo – che affronto ciclicamente e che potrebbero benissimo fungere da esempi di ognuna delle categorie che ho menzionato. Quindi, stantibus rebus, sono costretto a scegliere istintivamente. E l’opera Chi vince e chi perde, il mio primo quadro del 2001, è per me una sorta di “Numero 1” del mio forziere; sia per i contenuti e lo stile sia soprattutto per alcune risultanze estetiche ancora forti e vivide. C’è un personaggio dalla testa rossa e lo sguardo tra il pietito e l’inquieto che mi descrive nel profondo, pur non assomigliandomi effettivamente, e il turbinio costante ed avvolgente delle figure appena accennate e colorate mi è molto caro. Posso affermare con ragionevole certezza che difficilmente riuscirei a separarmi da quest’opera, se devo essere sincero fino in fondo.