23/04/2025
Perché imparare italiano?
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Perché imparare italiano?

Mar 10, 2025

Incontri e Racconti a cura di Edoardo Palumbo

Perché imparare una nuova lingua?

La prima riposta è, in un mondo dove ogni minuto deve essere investito per ricevere un ritorno economico, per trovare un lavoro.

Seguono ragioni via via meno monetizzabili: per viaggiare in un Paese dove parlano quella lingua, per comunicare con dei parenti o un partner che parlano quella lingua.

Ultima ragione, che tuttavia ha più il sapore di una velleità dal retrogusto ottocentesco, per apprezzare la produzione artistica elaborata in tale lingua. È la ragione che spinge un intellettuale a imparare il tedesco per leggere Wittgenstein o ascoltare Wagner. Oppure, quella di un adolescente che vorrebbe imparare il giapponese per vedere gli anime in lingua originale. In questi ultimi casi descritti, si tratta il più delle volte di tentativi di apprendimento destinati al fallimento.

Perché, alla fine, chi è che ha tanto tempo da spendere?

Ciò che conosciamo deve essere tradotto in pecunia, e tanta, perché i prezzi si alzano; ci vuole sempre più conoscenza, abilità, ingegno e impegno per permetterci gli averi che risultavano in fin dei conti scontati alla generazione dei baby boomer: una macchina, un appartamento, alimenti di qualità.

In questo senso è complicato motivare perché la gente dovrebbe imparare una lingua nuova, soprattutto se è apparentemente una lingua poco spendibile come l’italiano.

Insegno italiano ormai da sei anni, e la domanda rispetto alla quale perché bisognerebbe impararlo, legata a doppio filo con quella del perché io dovrei insegnarlo, è una questione che interiormente ho affrontato a varie riprese, nel corso del tempo.

Si trattava, nel mio caso, di ottenere la pietra filosofale da cui estrarre l’elisir che mi avrebbe motivato a lavorare ogni giorno.

Quando vivevo in Colombia, a Valledupar, alle pendici del deserto sabbioso della Guajira, il dubbio mi travolse per la prima volta come una zaffata ferina.

Ero lì perché avevo finalmente trovato lavoro, il mio primo lavoro serio: insegnante di italiano in un istituto Montessori.

Avevo tutte le classi, dall’asilo al termine delle superiori. Cento e passa studenti.

Mi resi conto ben presto che il mio ruolo era più simile a quello di un rappresentante del Paese da cui proveniva Montessori, piuttosto che quello di professore.

L’importanza della mia materia veniva dopo Educazione Fisica e anche dopo Religione, essendo quest’ultima estremamente valorizzata in un Paese sudamericano con forte identità cattolica.

All’inizio è stato un trauma; tutti i miei studenti, soprattutto gli adolescenti, erano coscienti quanto me dell’apparente inutilità dell’italiano. Sì, era lingua di un Paese europeo, ma non era comparabile alle lingue che si parlavano sui veri alberi dei soldi: Francia, Germania, Inghilterra.

Mia madre, per confortarmi, mi disse che l’italiano è la quarta lingua più insegnata e studiata al mondo. Effettivamente è così: per primo viene l’inglese, secondo lo spagnolo, terzo francese e quarto italiano, prima del tedesco, dell’arabo o del cinese.

Ma non era sufficiente, non potevo certo estrapolare le mie motivazioni da un reportino del Sole 24 Ore.

La chiave di volta è arrivata con il tempo, o per meglio dire è stata costruita a livello incosciente dal mio cervello per essermi gradualmente rivelata.

Il punto, è che in questo mondo super connesso tecnicamente quanto alienato a livello sociale, imparare una lingua nuova ci offre uno strumento in più per espletare un esercizio di cui avremmo veramente bisogno, oggi più che mai: comunicare.

Quando le emoticon hanno sostituito l’espressione verbale dei nostri sentimenti, ci siamo resi conto di essere poveri di parole. Non abbiamo i termini per dire ciò che proviamo, ciò che pensiamo.

Siamo, in un certo senso, più poveri di cultura, non solo intesa come insieme di nozioni da sfoggiare ma anche nel senso antropologico di ragnatela di simboli che ci permette di interagire con il mondo.

Geertz, noto antropologo degli anni ’90, descrive il cervello umano come l’hardware di un computer. Sono i programmi installati, i software, che permettono al computer di eseguire qualunque attività. Senza di questi, il computer rimane una scatola piena di cavi e metallo. Allo stesso modo, è la cultura e il suo apprendimento che permette al cervello di pensare e agire. Se nel Settecento si pensava che l’uomo senza cultura sarebbe stato uno scaltro e agile Tarzan, oggi si sa che l’essere umano senza apprendimento non è nient’altro che un mostro, incapace di ordinare le sue turbe chimico-emotive per decidere come meglio provvedere al suo benessere.

Conoscere un maggior numero di termini ci permette allora di interpretarci, e meglio interpretare il mondo per interagire con esso.

Apprendere un’altra lingua ci consente di entrare in connessione con gli altri, siano essi lontanissimi nello spazio e nelle concezioni.

Spiegarsi – capire universi di senso differenti – entrare in una relazione di scambio.

Le basi dell’empatia, della cooperazione.

Oggi, quando insegno ai migranti nei centri di accoglienza, percepisco che risultano annoiati dal dover apprendere parole apparentemente inutili come “forchetta” o “lavandino”. Mi diverto quando li vedo che a mala pena sanno leggere e scrivere, ma si cimentano a studiare il libro della patente dove, senza saper dire “strada” o “macchina”, pretendono di familiarizzare con “ciclomotore” o “carreggiata”.

Tuttavia, quando raccontano del loro passato in Africa o in Bangladesh, spesso mi chiedono di tradurre nomi di piante o animali che forse in italiano non hanno nemmeno traduzione. Il pesce “tilapia”, il frutto “corozo”.

Allora, anche se tali parole non sono spendibili nel nostro mondo, mi rendo conto che esprimerle per loro è una forma per aprirsi e comunicare con me, dimostrare a me e a loro stessi che il loro universo esiste e anche quello si può descrivere a partire dalle parole.

In quei giorni, ho l’impressione che stiamo comunicando per davvero.