IL PENSIERO POLITICO DI DANTE ATTRAVERSO LE SUE OPERE
(PARTE SECONDA)
Dante, nutritosi dell’Eneidee dei Testi biblici, proprio in virtù della sua esperienza di uomo giusto perseguitato dai suoi contemporanei e che a un certo punto sceglie di fare “parte per se stesso”, per usare le sue parole, si sente investito da Dio della missione profetica di indicare all’umanità la via della redenzione e della salvezza proprio attraverso il suo viaggio nell’aldilà che diventa monito, strumento educativo per la redenzione e per la presa di coscienza dei suoi contemporanei.
Nel poema, frutto maturo della sua esperienza di uomo e di Poeta, troviamo ampliati, approfonditi ed espressi in linguaggio e in immagini comprensibili a tutti i temi già affrontati nelle sue opere precedenti. E proprio il tema politico viene affrontato e sviluppato nel canto sesto di ogni cantica. Ogni canto sesto delle tre cantiche tratta il tema politico, come in una sorta di climax ascendente, perché nell’ Inferno si parla della condizione di Firenze, nel Purgatorio della condizione dell’Italia e nel Paradiso, nell’alto dei cieli, si guarda il mondo e con una visione straordinaria. Il tema squisitamente politico affrontato nei canti sesti talvolta viene ripreso e approfondito in altri canti. Infatti, per esempio nell’ Inferno viene ripreso nel canto decimo, con la figura di Farinata degli Uberti. Nel Purgatorio con Marco lombardo, e nel Paradiso nei canti di Cacciaguida (15/17). Il motivo per cui Dante sceglie il canto sesto per trattare il tema politico si spiega con il legame con Virgilio che lo guida, ma che, se vogliamo, potremmo considerare come suo padre spirituale. Se noi consideriamo l’Eneide, proprio nel canto sesto, che è il canto centrale del poema, Enea scende nell’oltretomba ed è qui che incontra i grandi Romani progenitori di Augusto (giustificando così la storia di Roma e sostenendo il programma politico augusteo). Anche in questo possiamo vedere un’affinità: anche Dante compie il viaggio oltremondano e sono numerosi i riferimenti che legano il viaggio nell’ oltretomba di Dante al viaggio di Enea. Senza contare che all’inizio dell’Inferno egli stesso dice: “io non Enea, non Paolo sono”, quando in un certo senso gli viene indicato da Virgilio il fatto che lui dovrà percorrere i regni dell’oltretomba.
Tornando al canto sesto dell’Eneide, in cui si voleva in un certo senso sancire l’importanza della gens Julia, nello stesso tempo si riprendevano gli aspetti migliori, più elevati, più alti della storia romana: i boni mores e le Virtutes (spesso coincidenti con quelle cristiane). Senza contare che la politica augustea sosteneva la pax e un ideale di pace, di Concordia ordinum che era stato nelle corde di Augusto e degli scrittori e dei poeti da lui sostenuti, ma che era anche l’ideale di Dante per l’umanità del suo tempo.
Nell’Inferno nel canto sesto troviamo tra i golosi Ciacco un fiorentino abbastanza ignoto, Dante, profondamente colpito dalla sua sofferenza, gli fa tre domande che riguardano la loro città. E, dai versi 58 a 63, la prima che è rivolta a sapere che accadrà di Firenze divisa dalle fazioni, la seconda se ci sia qualcuno giusto, cioè al di sopra delle parti, perché, non dimentichiamolo, per Dante il problema era costituito dalle divisioni che non consentivano assolutamente a nessuna città italiana vivere in pace. E poi, la terza domanda, quale sia il motivo delle discordie fiorentine. La risposta di Ciacco si snoda in pochi versi, dal 64 al 75, in cui si mettono in evidenza i problemi fondamentali con grandissima potenza di sintesi storica. Le gelosie tra i Bianchi e i Neri, che facevano capo rispettivamente alle famiglie dei Cerchi e dei Donati, sarebbero esplose nella festa di Calendimaggio del 1300 e i due partiti si alterneranno al governo finché prevarranno i Neri sulla parte selvaggia, i Bianchi, detti così perché provenivano dal contado, poi, con l’aiuto di Papa Bonifazio che farà entrare a Firenze Carlo di Valois, i Neri tra il 1301 e il 1302, “infra tre soli” ,come dice Dante, torneranno al potere e con terribili condanne e prescrizioni determineranno la catastrofe della patria. Alla seconda domanda, Ciacco risponde
ironicamente che i giusti son due, per dire che erano praticamente inesistenti, quindi un numero irrilevante, e per giunta non sono ascoltati e queste parole che erano valide nel 1300, ci riportano alla nostra condizione attuale. Alla terza domanda la risposta sottolinea come “le tre faville” che hanno acceso i cuori siano la superbia, l’invidia e l’avarizia che richiamano direttamente le tre fiere della selva selvaggia. Quindi si può dire la superbia dei grandi e quella di popolo nella repressione, l’invidia come l’odio che divora e dilaga fra i cittadini e le varie classi sociali, mentre l’avarizia è la cupidigia che trascina i cuori degli uomini e che aumenta il dissenso civile. Questo tema è ripreso nel canto decimo, dai versi 22 a 51 con Farinata degli Uberti e qui il sentimento patriottico coincide con l’amore per Firenze. Farinata manifesta fin dalle prime battute l’amore per la patria e il rimorso per averla danneggiata, nel momento in cui riconosce Dante come fiorentino, come nativo di quella “nobil patria alla quale forse fui troppo molesto”. Quindi in un certo senso riconosce, seppure a malincuore, di avere causato a Firenze dei danni. Però più avanti riconoscerà di essere stato l’unico, quando la sua parte prevarrà sulla parte avversa, a volere salvare Firenze, che invece i suoi compagni di partito avrebbero voluto radere al suolo. Per Dante, quindi, Farinata, sebbene avversario, è una figura positiva perché si eleva sugli interessi della sua parte per il bene della patria. Così la sua magnanimità è il contrario della faziosità, sa superare gli interessi egoistici per il bene collettivo.
(continua)