Dalì e Cheyenne
I lividi fanno ancora male. La sensazione che sento addosso, oggi, è un misto tra vertigine e disincanto. Quindi va meglio.
È l’una di notte, le luci del locale sono ancora accese, il ristorante stasera ha lavorato molto. Lentamente, con dolore, stringo attorno a me gli stracci sporchi di sangue che ancora indosso e mi siedo sul ciglio del marciapiede, accanto ai bidoni dell’immondizia, ad aspettare la cena.
Cucinare, voce del verbo “lavorare le materie prime”.
È così?
Direi di no.
Cucinare, pensavo, è armonizzare tante cose diverse al punto da dargli un’identità nuova.
La trasformazione delle materie prime, quella senza cui l’insieme non è possibile, tuttavia, è la verità. È nella capacità di cambiare che è chiuso il senso della vita.
Una volta ero Maria l’insegnante di italiano. Ora sono… cosa? Una clochard? O solo un bastardino che aspetta la cena dagli altri?
Lentamente Dalì e Cheyenne, i cani che mi hanno indicato questo locale per sfamarmi, arrivano. Sono simpatici, un po’ sgorbi, ma tanto affettuosi e caldi.
Mi guardo attorno, il retro del locale non è altro che un vicolo claustrofobico e maleodorante. Non è molto che mi sono rifugiata in questa condizione, tuttavia mi sono accorta che certi luoghi oscuri e appartati somigliano agli sgabuzzini disordinati senza finestre di certe case: rottami abbandonati e bidoni traboccanti di vite smesse dall’odore a volte dolciastro, altre acre.
Il fumo denso delle cucine che appesta l’aria di unto e posa ovunque una patina di grasso, completa il quadro.
La condizione di questo vicolo, in fondo, non è dissimile al casino della mia esistenza: tante varianti, un unico insieme.
Alzo gli occhi sul palazzo di fronte, c’è solo una finestra con le luci accese e si sente la voce di Carlo Lucarelli.
Staranno guardando “Blu Notte” o è la televisione che sta guardando loro? Quando ero sposata non ho mai avuto il tempo di addormentarmi davanti alla TV. Mi chiedo come possa essere. Che sensazione si prova?
Per un attimo ripenso alla mia vecchia vita, quella che credevo di avere e su cui pensavo di avere controllo.
Pensateci. Nell’abbondanza gli amici sono amici e basta; nella povertà li perdi perché scopri che non erano tali e te ne restano giusto un paio, disgraziati come te. Forse per questo tornano ad acquisire il loro nome specifico: Mauro e Luisa.
Sentite bene come suonano.
Contengono una melodia intima, confidenziale, rassicurante. Niente a che vedere con gli amici delle serate al pub e in discoteca con cui non condividi te stesso, ma solo un riflesso felice, che tenta ad ogni costo di nascondere una vita insoddisfacente.
Allo stesso modo, dopo che il mio matrimonio si è autodistrutto, chiamo le poche cose che ancora ho in modo consapevole. Perfino gli oggetti acquisiscono una connotazione profonda.
Il rumore tetro del maniglione antipanico irrompe nei miei pensieri: un ragazzino smilzo poggia a terra senza convenevoli un sacco nero gonfio e pieno a metà. La poca luce restituisce il movimento liquido della plastica: non posso pretendere che separino il cibo avanzato per renderlo più appetibile, dipende dalle serate. A quanto pare stasera io e il branco ceneremo con un pastone.
Sorrido, loro scodinzolano.
Io ripenso al fatto che un ingrediente quasi svanisce a piatto finito, è solo parte della somma. Ma questo accade quando sei “normale”.
Quando inizi a vivere sui marciapiedi quasi subito accade qualcosa di strano, il cibo perde personalità: il parmigiano diventa solo formaggio; il Montepulciano diventa solo vino e così via. Poi ci sono quelli come me che riescono a reperire solo un pastone amorfo.
Alla fine è solo sopravvivenza.
Io amavo cucinare e sceglievo con molta cura i singoli ingredienti, li trattavo in maniera precisa e delicata, perché solo l’amore può restituire l’intenzione della cura e il risultato perfetto.
Mi alzo, barcollo, lo spicchio di luce donato dalla porta si chiude impietoso, con un tonfo secco. Recupero i contenitori in plastica da mozzarella che lasciano in un angolo per i cani e apro il sacco. Divido la razione per ognuno di noi, la mia la lascio per dopo. Appena sciolto il nodo mi arriva un odore nauseante, non sono certa di riuscire a mangiare.
È passata una settimana da quella notte, Mauro e Luisa mi hanno dato le chiavi di un monolocale che era appartenuto ai genitori. Il fatto è che non ricordo dove si trovi e quando ci sono andata mi hanno cacciata. D’altronde chi vorrebbe far entrare in un palazzo residenziale una tizia vestita di stracci? In verità non ho neanche visto la buganvillea fucsia che Luisa mi aveva dato come riferimento. Sarò entrata nella casa giusta? Resta il fatto che i miei amici hanno provato a nascondermi e cercato di prendersi cura di me. Io, da parte mia, provo a non essere un peso. Non riesco a fare altro. Anche volendo, non ricordo a memoria il loro numero di telefono e non so come chiamarli.
Sollevo il sacco e mi avvio. La caviglia e la pianta del piede mi fanno ancora male, ma ho fame.
Ho conosciuto Mauro e Luisa all’entrata del Liceo classico, mi piacquero subito e abbiamo preso insieme il diploma, stessa classe. Non avrei mai immaginato che proprio loro un giorno mi avrebbero salvato la vita. Soprattutto non avrei mai creduto di essere così stupida da mettermi in un guaio del genere.
Certi giorni non capisco come ci sono arrivata a questo punto, come sono passata da Maria la professoressa a Maria la moglie di Franco. Soprattutto non capisco cosa è successo nel passaggio da donna innamorata a barbona.
Passo le giornate a camminare rasente i muri di questo quartiere.
Ricordo solo vagamente la sera in cui lui è tornato a casa più ubriaco del solito. Ero arrabbiata perché sapevo che aveva un’altra donna e che l’aveva messa incinta, per giunta.
Normalmente non avrei mai alzato la voce con lui, ma quella volta lo feci. Mi ero impegnata nell’azienda di famiglia nonostante già fossi un’insegnante, annaspavo inseguendo le mansioni da segretaria mentre le mie ore di sonno rasentavano il minimo storico. Mi alzavo prima di lui e andavo a dormire sempre più tardi. Era per essere il suo mulo da soma che, infine, avevo smesso di essere Maria l’insegnante? Per me la sua considerazione aveva davvero avuto più valore della mia identità?
Quasi alla fine del vicolo devo fermarmi, ansante. Un mobiletto da bagno abbandonato di cui torreggia uno specchio sbeccato mi restituisce un’immagine grigia, su cui spicca del sangue rappreso in testa. Questa condizione mi permette di ottenere due estremi: gentilezza dalle brave persone e indifferenza/schifo dagli stronzi. Mi protegge.
Tuttavia devo andarmene velocemente. L’ultima volta ho evitato la cattura per poco. Se mi trovano mi portano in ospedale. E poi a casa. E a casa c’è lui.
Eravamo una coppia nella media e dopo dieci anni tutto era scivolato nel torpore. Tutte le speranze e le aspettative erano affogate nel grigiore di una vita di lavoro e sottomissione. Poche attenzioni sapientemente sparse in presenza dei parenti, salvano appena le apparenze.
Non era quello che volevo, ma lo amavo e perderlo mi era ancora intollerabile, al tempo.
Ma quella sera, quando lo fronteggiai, tutto si ruppe del tutto.
Ricordo la mia rabbia; poi botte, tante, dolorose.
Non riuscivo nemmeno a proteggermi per quanto era veloce. Mi insultava fuori di sé.
Appena toccai terra mi trasformai in un mucchietto informe, con le orecchie che sibilavano.
La mia voce uscì in un rantolo meccanico, espellevo forzatamente aria a ogni colpo ricevuto.
Mi prese per i capelli e mi trascinò fuori di casa, sul pianerottolo. Che vergogna: i vicini avrebbero visto la mia miseria.
Sentii il corpo andare a fuoco, pulsante; sentii del liquido caldo scivolare dal mio corpo, denso. Era il mio sangue.
Delle porte si aprirono, altre urla. Il mio viso, appena lo costrinsero a lasciarmi, batté sul pavimento freddo in modo doloroso.
Ero a un passo dalle scale, se mi avesse buttata di sotto… fissai la luce calda degli applique decorati sui muri, mi attraversò la coscienza dell’accaduto e la paura. L’ascensore si aprì, qualcuno mi toccò e piansi dolore senza riuscire a dire nulla. Poi il buio.
Mi appoggio all’angolo della strada in affanno, già grondo sudore freddo. Non posso cambiare mano per portare il sacco, l’altra spalla non mi funziona, e così la mano. Non so perché.
Mi stacco per fare qualche altro passo, ma qualcosa va storto, sento un colpo di clacson, una frenata.
Ho paura, le ginocchia cedono.
Strizzo gli occhi, vedo sfocato. Fa male.
«Maria!»
Una voce familiare, da qualche parte, mi chiama.
Fa tanto, troppo male.
«Dove sei stata? Ci hai fatto preoccupare! Sono giorni che ti cerchiamo!»
Sento il suo abbraccio afferrarmi con urgenza e stavolta le ginocchia non incontrano l’asfalto.
«Ti abbiamo aspettato, perché non sei venuta a casa?»
«Io non riuscivo a trovare la buganvillea» esalai esausta, sentendomi finalmente al sicuro. Mi giro per cercare Dalì e Cheyenne, non voglio lasciarli soli, ma accanto a me non c’è nessuno. Nel fondo del vicolo le ciotole ancora piene troneggiano sotto il lampione sgangherato.
«Maria stai tranquilla , non potrà più farti del male!»
«Dove sono Dalì e Cheyenne?» sussurro. Li ho immaginati e basta? Impossibile, penso accusando un giramento di testa.
«Chi?» chiede la mia amica cercando di guardarmi in faccia.
«I cani» alito stremata.
«Ma non ci sono cani!»
Dei passi rapidi, una voce maschile irrompe con urgenza, «Signora! È in stato confusionale e credo abbia il braccio rotto, la lasci a noi!»
Un portellone, qualcosa che scorre, un rumore metallico e delle piccole ruote veloci sull’asfalto.
Vedo la barella, metto a fuoco l’ambulanza, poi sorrido e mi abbandono alla pace che tanto avevo desiderato: quindi per giungere a questo momento, loro mi avevano custodito? Gentilmente, mi avevano accompagnato fino quando qualcuno, davvero, si sarebbe preso cura di me?
Ritrovata la donna pestata nel viterbese
Ieri, nella tarda serata, è stata ritrovata e soccorsa M.S., vittima di un pestaggio selvaggio da parte del marito, L.A.
Della donna non si avevano più notizie da circa una settimana, gli inquirenti a capo delle indagini, ormai stavano battendo tutte le piste possibili per ritrovare la donna viva o morta.
La vittima è stata individuata grazie alla segnalazione di un ristorante del centro storico cui elemosinava cibo. È stata ricoverata in prognosi riservata.