19/02/2025
Un anno indimenticabile
Raccolte Racconti Lunghi

Un anno indimenticabile

Apr 28, 2024

Capitolo 1

Avevo ventisette anni e ne dimostravo diciotto, quando mi chiamarono per una supplenza di filosofia in una terza liceo di uno dei più prestigiosi licei classici di Palermo; era una classe terminale, che quell’anno avrebbe affrontato gli esami di maturità e io sembravo una ragazzina, coetanea dei miei alunni.

Da principio non mi resi subito conto della responsabilità che mi stavo assumendo: si trattava del corso più prestigioso della scuola, il loro professore di filosofia era un mito in quel liceo : comunista militante, bravissimo, godeva di una fama e una stima immense, i suoi alunni lo ammiravano incondizionatamente e si erano formati in tre anni alla luce dei suoi valori e del suo metodo di insegnamento, per cui si distinguevano dagli altri alunni del liceo, avevano qualcosa di speciale, erano “il corso C”.

L’anno era il 1977, si era in piena contestazione studentesca e alla vigilia degli “anni di piombo”, tuti i leaders del movimento studentesco appartenevano a quella classe.

Quando il loro professore si ammalò di depressione per la morte della madre, arrivai io per una breve supplenza di un mese, tutta contenta per lo stipendio che avrei incassato e piena di entusiasmo e buona volontà.

Non era la mia prima supplenza perché appena laureata avevo già fatto esperienza, insegnando lettere in diverse scuole medie della Provincia e filosofia in un altro liceo di Palermo, scientifico quella volta. La prima prova del fuoco la dovetti affrontare alla scuola media di Villabate; quando il bidello mi vide, mi urlò di tornare subito in classe, cosa ci facevo in corridoio, poi si profuse in scuse, mi aveva scambiato per un’alunna, lei è così giovane, professoressa, mi scusi ancora, ma, se permette, prenda questo…le potrà servire in mezzo a quei diavoli…e mi mise fra le mani un grosso bastone di legno.

Io lo guardai inorridita e feci per restituiglierlo: tutte le teorie pedagogiche e psicologiche apprese all’università si rivoltarono dentro di me e cercai di fulminarlo con uno sguardo gelido, ma non desistette dal suo intento: “lo prenda, lo prenda, vedrà che mi ringrazierà.”

Mezz’ora dopo in una classe di trenta ragazzini tredicenni cercavo invano di arginare il caos: due di loro si stavano prendendo a legnate, mentre io cercavo di intromettermi per separarli, con il solo risultato di beccarmi un calcio nelle gambe e un colpo nello stomaco; i due scapparono dall’aula e si rifugiarono correndo nei gabinetti, dove si chiusero a chiave, continuando a picchiarsi, mentre io , disperata, battevo contro la porta, urlandogli di smetterla.

Lo sguardo che mi lanciò il bidello, quando arrivò in mio soccorso, non lo dimenticherò mai: “Glielo avevo detto di prendere il bastone, professoressa, quelli sono animali, le hanno fatto male?” e mentre parlava, forzava la porta e li separava a spinte e ceffoni.

Ma non tutte le esperienze alla scuola media erano state così movimentate, anche se ero passata per tutti i paesi più arretrati della provincia: con le femminucce andava molto meglio, io raccontavo in classe la trama de “I Miserabili” e de “Il conte di Montecristo” e loro mi seguivano attentissime e mi adoravano.

Facevo anche educazione sessuale, senza aver chiesto nessuna autorizzazione né al Preside, né alle famiglie, cosa che oggi mi procurerebbe un sacco di guai.

L’ignoranza era grande e la curiosità ingenua e innocente: mi chiedevano come nascono i bambini, cos’è il parto cesareo, perché i gemelli sono uguali e se con il bacio con la lingua si poteva rimanere incinte.

Nessuno gli aveva mai spiegato niente e la loro principale fonte d’informazione proveniva dai fotoromanzi come “Sogno” e “Grand hotel”, in cui ragazze pure e ingenue venivano baciate nell’ultimo fotogramma e si ritrovavano con il “figlio della colpa” nella puntata successiva.

Altra fonte di informazione era il cugino maggiore, l’unico maschio che le ragazze a quei tempi potevano frequentare nei paesi interni della Sicilia e presumo che i volenterosi maestri facessero quasi sempre seguire le dimostrazioni pratiche alle lezioni teoriche. Con mia grande fortuna non passai mai guai con le famiglie delle mie piccole alunne, anzi una madre venne a ringraziarmi perché le avevo tolto il peso di affrontare con la figlia quegli argomenti, di cui si vergognava a parlare.

Quindi nel momento in cui fui chiamata al liceo classico per sostituire il professor M non ero proprio alle prime armi, anche se i bidelli continuavano a scambiarmi per un’alunna e mi rimproveravano, se mi trovavano a girare per i corridoi.

La classe, in cui mi accingevo ad entrare per la prima volta e che tanto peso avrà nella mia vita, era formata da una ventina di alunni fra i diciassette e i diciotto anni, tutti maschi, come si usava allora, quando non erano state ancora istituite le classi miste.

Tutti questi ragazzi sono oggi uomini fatti e hanno raggiunto posizioni elevate nella società: Giusto è professore di storia alla Sorbonne di Parigi, Luca professore di diritto all’Università di Palermo, Antonio e Giuseppe sono direttori di banca, Nicola è magistrato, Baldo è avvocato, Riccardo è medico, Mimmo professore di filosofia al liceo.

Allora erano tutti contestatori, comunisti o anarchici, avidi di conoscere, individualisti nel metodo di studio, preferivano leggere i testi che i manuali, facevano continuamente a gara per mettersi in luce agli occhi del professor M, il loro maestro e idolo: insomma erano i leaders della scuola, “i ragazzi del professor M”. Figuratevi come venne accolta una supplente giovanissima, che sembrava una ragazzina e aveva l’ardire di voler sostituire il professore M!

Il mio arrivo portò un certo scompiglio in classe perché si formarono subito due gruppi: da un lato i sedotti e innamorati, dall’altro gli ostili e provocatori. Gli innamorati si proclamarono subito miei seguaci e si esibirono in una serie di gesti che dovevano dimostrare la loro incondizionata ammirazione e devozione: scrivevano il mio nome sui muri della scuola, mi facevano trovare sulla cattedra fiori e bigliettini, mi seguivano come ombre dovunque andassi e non perdevano un minuto delle mie lezioni o una parola che sfuggisse dalle mie labbra.

Gli ostili non potevano assolutamente accettare che una ragazzetta qualsiasi, appena uscita dall’università, potesse prendere il posto del loro professore, maestro di vita e di politica, antifascista da sempre, una cultura storica e filosofica vastissima, un’esperienza di insegnamento trentennale.

E per dimostrare che non mi accettavano, quando io entravo loro si alzavano e uscivano dalla classe.

Poi c’era Luca, che era il mio incubo: Luca mi era ostile e non mi stimava, ma, invece di allontanarsi, restava in classe e cercava di mettermi in imbarazzo e farmi cadere, ponendomi domande e dubbi tremendi. Sono sicura che Luca passasse le notti non a studiare per l’indomani, ma a preparare le domande con cui mi avrebbe fatto fare cattiva figura l’indomani.

E io passavo le notti a cercare di indovinare quali domande Luca avrebbe potuto farmi e preparare le risposte.

Così fra i pianti notturni della mia bimba neonata e gli incubi che mi provocava Luca, dormivo pochissimo e avevo sempre sonno.

I giorni passavano e io continuavo a fare lezione solo a mezza classe, suscitando la perplessità dei miei innamorati, che mi chiedevano se non mi sentissi umiliata e offesa dal comportamento maleducato dei loro compagni e mi invitavano a far intervenire il Preside, per costringere quei cafoni a rispettarmi.

Ma io restavo fedele al mio proposito di non fare intervenire il Preside, perché non avrei più avuto alcuna autorità in futuro su di loro e decisi che me la sarei cavata da sola; ma dovevo tentare un diverso tipo di approccio e mettere in atto una tattica diversa per conquistarmi quegli irriducibili avversari e farli passare dalla mia parte, affrontandoli uno alla volta.

Così dall’indomani, durante l’intervallo, invece di stare in compagnia dei miei colleghi professori, presi a mescolarmi con i miei alunni più ostili e ogni giorno ne abbordavo uno e mi dedicavo sistematicamente a sedurlo: sapevo che a quella età i ragazzi sono particolarmente attratti da chi mostra interesse ad ascoltarli e così li inducevo a parlare, mi interessavo ai loro problemi, davo loro importanza e considerazione. E ogni giorno un nuovo alunno si aggiungeva a quelli che restavano in classe e seguivano le mie lezioni.

Capitolo 2

Solo uno mi resisteva e fu l’ultimo a cedere: Antonio era uno dei leaders indiscussi della scuola, contestatario, ribelle, chiuso e ombroso non aveva la spensieratezza degli altri, sembrava più provato dalla vita, più uomo, anche perché era un po’ più grande di età.

Da uno dei miei fedeli innamorati mi ero fatta raccontare la sua storia: non era di famiglia agiata, ma figlio di un operaio morto in un incidente sul lavoro e, quando frequentava il primo liceo si era ritrovato capofamiglia ed era stato costretto a lasciare la scuola per andare a lavorare in un bar; il professor M.

l’aveva ritrovato, gli aveva fatto avere una borsa di studio e l’aveva riportato in classe, dove si era ritrovato

con altri compagni più giovani e spensierati di lui, ricchi, senza un pensiero al mondo, se non quello di studiare, correre dietro alle ragazze e mettersi in mostra agli occhi del professore M.

Antonio ammirava in modo incondizionato il prof. M. per la sua cultura e la sua umanità: era l’uomo che l’aveva salvato e gli aveva offerto la speranza di una vita migliore, anche se il ragazzo non aveva molta fiducia in questa società e la contestava totalmente, con l’estremismo della sua età. Credeva nella coerenza morale ed era alieno da ogni compromesso, qualità che l’avevano reso un leader agli occhi dei compagni, ma gli impedivano di cedere alla simpatia che, suo malgrado, sentiva nascere nei miei confronti. Un giorno mi disse, quasi aggredendomi con violenza: “ Tu piaci a tutti, piaci a noi ragazzi e piaci al Preside e ai tuoi colleghi professori, non è possibile che una persona piaccia a categorie così diverse, non è che sei tu ad essere falsa e bugiarda?”

Queste parole mi diedero da pensare: che avesse ragione lui ed io fossi un po’ civetta e ipocrita?

Intanto i rapporti all’interno della classe miglioravano sempre più : ora ci davamo del “tu”, glielo avevo permesso, sia perché la differenza d’età era veramente poca, sia per farli sentire più a loro agio; certi colleghi storcevano il muso, ma io non ritenevo che il rispetto dipendesse da un fatto così formale come il “tu” o il “lei”.

L’importante era che tutti rimanevano in classe, tutti volevano partecipare alle discussioni, discutevamo di tutto e io facevo parlare tutti. Un giorno (eravamo quasi alla fine della supplenza) mi telefona il professor M. per comunicarmi che le sue condizioni di salute sono ancora precarie, per cui non ha intenzione di tornare a scuola e spera che chiuda io l’anno scolastico e accompagni la classe fino agli esami.

Io mi sentii felice perché altri quattro mesi di stipendio mi facevano comodo e aumentavano il mio punteggio nelle graduatorie del Provveditorato, ma ero anche terribilmente preoccupata per come avrebbero preso la notizia i ragazzi: quell’anno c’era la “maturità” e loro non sarebbero stati accompagnati agli esami dal loro professore.

Invece accadde un fatto meraviglioso: quando comunicai la notizia a bassa voce, con un tono quasi di scusa, i ragazzi cominciarono a saltare e ballare di gioia, urlando “viva” e “urrà”. E mi dissero che erano felici che restassi con loro, perché il professor M. era un genio, ma non tutti erano d’accordo con il suo metodo, perché lui parlava solo con i suoi preferiti, mentre io parlavo con tutti e valorizzavo tutti.

Io risposi che ero felice di accompagnarli alla maturità, ma d’ora in avanti avrei preso io il comando e dovevano seguire il mio metodo: Nicola, per esempio, era un genio degli scacchi, ma non studiava mai, con la scusa che doveva partecipare ai tornei internazionali. Io non volli sentire ragioni, l’interrogai sul programma ufficiale e non gli misi la sufficienza finché non studiò in modo più regolare.

Smisi di aver paura di Luca e l’interrogai come un alunno qualsiasi, facendogli io le domande e non permettendogli di prendere l’iniziativa con quesiti arzigogolati, inventati quando non sapeva rispondere ad una interrogazione diretta su un argomento preciso: e si beccò la prima insufficienza della sua vita.

“Mariceta ha fregato Luca, Mariceta ha fregato Luca” dicevano felici gli altri, che evidentemente avevano Luca un po’ sulle palle. Poi successe un altro fatto, che non mi sarei mai aspettata: ad un mese dagli esami si riunì il Consiglio di classe per designare chi sarebbe stato il membro interno che avrebbe accompagnato i ragazzi durante la prova della “maturità”, assumendo tacitamente il ruolo di difensore della classe davanti agli altri professori esterni. Ebbene, nessuno dei professori titolari volle fare il membro interno di quei ragazzi, anche se li conoscevano da tre anni, perché era una classe troppo particolare, che aveva sempre studiato in modo non scolastico e, sebbene fosse formata da ragazzi estremamente dotati, non garantiva un sicuro successo.

E così all’unanimità designarono come membro interno me, la supplente, che li conoscevo da appena sei mesi. Diventammo una vera squadra, si annullò ogni timore e ogni formalità: venivano a studiare ogni pomeriggio nella mia villa di Mondello, facevamo insieme il bagno a mare, poi la merenda, dopodiché studiavamo fino a sera.

Impararono a fidarsi totalmente di me e ad accettare i miei giudizi, anche se un po’ severi.

Intanto mi accorgevo che qualcosa stava succedendo con Antonio: lo vedevo impacciato e talvolta se ne usciva con complimenti assurdi, come questo: “come sei elegante!”, quando mi vide per la prima volta in bikini. La corazza iniziale si era sgretolata e mostrava un animo timido e delicatissimo, io credevo di capire, poi mi dicevo che non era possibile, capivo e non volevo capire, ero la sua professoressa, ero più vecchia di sei anni, ero sposata e avevo una bambina, i tabù della differenza d’età e del rispetto dei ruoli professionali erano all’epoca ancora fortissimi.

Ma mi abbandonavo al piacere di una corsa sul suo motorino, stretta dietro a lui, con i capelli al vento e una strana felicità nel cuore, senza pormi domande, senza voler pensare, vivendo nell’attimo di una giovinezza, che sarebbe fuggita inesorabilmente.

Se l’amore tentava timidamente di far capolino durante quell’estate del 1977, fu invece la morte ad irrompere violentemente fra noi, rendendo quell’anno davvero indimenticabile.

Gli scritti erano andati benissimo ed eravamo tutti carichi di entusiasmo in vista degli orali, quando Giuseppe, uno dei ragazzi che stimavo di più, fu colpito da una notizia terribile: la sua famiglia era stata coinvolta in un terribile incidente stradale, la mamma era morta, la sorellina gravissima in ospedale, il padre, che guidava la macchina, era rimasto illeso, ma era distrutto dal rimorso e dal senso di colpa.

Giuseppe era uno dei ragazzi più bravi e più seri della classe: studiava tutte le materie col medesimo impegno e anche nella vita privata teneva un comportamento esemplare, perché non si innamorava continuamente come Baldo( uno dei miei innamorati più plateali),ma da parecchio tempo “filava” con la stessa ragazza Maria Rosa, che frequentava una classe inferiore nello stesso liceo.

Qualunque altro ragazzo sarebbe crollato sotto il colpo di quella notizia, che arrivava alla vigilia degli orali, ma Giuseppe era un ragazzo fortissimo: con l’aiuto di Maria Rosa e l’affettuoso sostegno di tutti noi, non si abbandonò alla disperazione, ma trovò la forza di presentarsi agli orali e di sostenere un esame splendido, maturandosi con il massimo dei voti.

La sua storia aveva commosso tutti e, quando furono appesi i risultati degli esami, tutto il Liceo, dal Preside ai bidelli, dai suoi vecchi professori ai compagni di classe, vollero abbracciarlo e baciarlo, felici come se fosse stato un loro figlio o fratello: ma lui aveva occhi solo per la sua Maria Rosa.

Si concluse così quell’anno indimenticabile: la IIIC, la classe terribile dei contestatori, la classe che nessuno aveva voluto accompagnare agli esami ebbe i risultati migliori di tutta la scuola, anzi di tutte le scuole di Palermo e finì perfino sul giornale locale.

Ma, in mezzo a tante soddisfazioni, una leggera malinconia serpeggiava fra noi, forse perché inconsapevolmente sapevamo che non avremmo più vissuto un anno così o piuttosto noi non saremmo mai più stati gli stessi nell’affrontare le altre prove della vita.

Ricordo l’ultimo incontro fra me e Antonio: eravamo seduti su una panchina della Villa Giulia, un grande giardino pubblico vicino all’Orto Botanico, e ci stringevamo le mani e fissavamo negli occhi, sapendo che quella era l’ultima volta che ci vedevamo, prima che la vita ci separasse per sempre. Lui non parlava, si aspettava che a prendere l’iniziativa fossi io, era giusto: io ero la sua professoressa e aveva paura di offendermi, ma io ero troppo vigliacca per fare il primo passo. Ci dicevamo cose banali e non vere, tipo: “dopo l’estate ci rivedremo” ma sapevamo entrambi che erano bugie.

Alla fine ci staccammo e ci salutammo e lui mi diede un bacio leggero, fra la guancia e l’inizio delle labbra, che io ricorderò sempre.

Epilogo

Sono passati vent’anni, sono divorziata e ho due figli grandi, vivo da sola nella villa di Mondello, ho conosciuto altri uomini, ma quel bacio mancato lo ricordo ancora.

Suona il telefono e rispondo, senza immaginare chi possa essere: è Giusto, che insegna storia alla Sorbonne di Parigi ed è venuto a Palermo per salutare la madre.

“Stiamo organizzando una rimpatriata al ristorante fra tutti noi della vecchia IIIC. Ho già rintracciato Baldo, Giuseppe, che è sposato con Maria Rosa, e Antonio. Di professori vogliamo solo te”.

Io tremo al telefono, sono commossa, sono felice e assento vigorosamente: “Certo che verrò. Dimmi l’indirizzo del ristorante e l’ora dell’appuntamento” “Verrà Antonio a prenderti con la sua macchina. Ti ricordi di Antonio? Ha voluto essere lui a venire a prenderti” (con un po’ di malizia nella voce).

Dunque tutti avevano capito! Ma non importa, mi sono comportata bene allora: sono stata saggia, ho mantenuto fede al mio ruolo.

E’ meglio avere rimpianti o rimorsi?

“Amo solo le rose che non colsi” dice un poeta

Antonio arriva puntualissimo con la sua grande macchina; è molto meglio di quando era ragazzo, non ha più quell’aria torva e chiusa, il successo come direttore di banca gli ha fatto bene.

E io come sono diventata? Come mi troverà dopo vent’anni?

“Sei sempre bellissima”, mi dice galante.

“Non hai mai saputo fare i complimenti!”, gli rispondo scherzosa.

Ci guardiamo imbarazzati senza mai fissarci negli occhi, protetti dal buio dell’abitacolo, le domande importanti restano sospese nell’aria: sei sempre sposata? e tu, hai qualcuna? ti ricordi?

Arrivati al ristorante, veniamo travolti dall’allegria degli altri: tutti vogliono parlare, raccontare di sé, del loro lavoro, Luca ha la faccia tosta di dirmi che ero la sua insegnante preferita, Giusto confessa che in amore ha cambiato molte compagne, Giuseppe e Maria Rosa hanno due figli e sono ancora innamorati, Antonio non si è mai voluto sposare…

Io non ho il coraggio di confessare che da due anni sono nonna di un bellissimo nipotino

Al ritorno in macchina io e Antonio piombiamo di nuovo nello stesso imbarazzato silenzio: perché non lo incoraggio? Che cosa mi trattiene ancora? Non siamo più legati ai ruoli di alunno e professoressa, la differenza di età fra noi è di appena sei anni, una differenza ridicola al giorno d’oggi, lui non è certo un “toy boy”, ma un uomo maturo che ricopre un ruolo importante nella società, io a quarantasette anni sono una nonna molto giovane, perché mi ero sposata giovanissima, non ho scrupoli morali, siamo entrambi liberi, liberissimi, lui non è sposato, io sono divorziata e non mi pongo problemi di coscienza nei confronti di un ex -marito, che mi ha tradito abbondantemente in passato.

Perché dunque resisto? Forse perché non sono abituata a prendere l ‘iniziativa come fanno le ragazze d’oggi? Eppure non temo un rifiuto, lo capisco da come mi guarda, dal fatto che si è offerto spontaneamente di accompagnarmi in macchina. Poi d’un tratto un pensiero mi colpisce: queste stesse considerazioni deve averle fatte pure lui, eppure non si fa avanti, esita anche lui, anche lui ha paura di rovinare con qualche gesto malaccorto, con qualche parola sbagliata, con qualche commento fuor di luogo il ricordo bellissimo di un amore giovanile, che è rimasto nella dimensione di un sogno, senza mai doversi confrontare con la realtà.

“Amo solo le rose che non colsi”, dice un poeta.

Mariceta Gandolfo