
OLTRE IL BUIO
Racconto di Antonella Di Moia
Capitolo 1
È un giorno come tanti, identici, anestetizzati.
Ho privato il soffitto delle macchie di muffa due settimane fa, tra l’altro creandomi delle ferite perché non sapevo che in quell’intruglio resinoso era presente della calce. Quando faccio qualcosa non guardo al fatto di sporcarmi, anzi, mi piace. Per hobby sono una pittrice, dipingo addosso la legenda dei miei quadri, poi li traslo sulla tela. Mi sporco con la soddisfazione con cui voi, esseri qualunque quanto me, attivate la posizione sui vostri telefoni per usare il navigatore.
Fisso la volta a crociera, ancora. La messa a fuoco e instabile. Afferro il calice sulla scrivania e lo svuoto d’un fiato. Non sono affatto soddisfatta di aver ridato dignità alla stanza. Non mi somiglia più.
Tuttavia ero in uno di quei rari momenti in cui avevo la risolutezza di un tempo.
Voglio dormire.
Ho costruito la mia stanza dandole l’aspetto di una tana confortevole in cui spegnermi.
Ogni giorno lavoro quanto basta per comprarmi l’alcool sufficiente a lasciarmi morire. Fare la lavapiatti in una grossa struttura e solo di sera è confortevole. Puoi vestirti male e non hai bisogno di essere socievole con nessuno.
Sono stanca. Non voglio più prendermi la responsabilità di cambiare me e la mia vita. L’ho fatto innumerevoli volte, ho combattuto per ogni vita che ho aperto e adesso ne ho abbastanza. È per questo che mi sono trasferita in fretta e furia e mi sono allontanata da tutti.
Oltre la soglia della mia stanza ogni tanto vedo i miei due figli, gli unici che sanno dove mi sono nascosta, e osservo da spettatrice le loro esistenze conflittuali. Sono grandi e autonomi, passano a trovarmi giusto il tempo di sincerarsi che tutto scorra come sempre. Il fatto è che loro mi vedono sempre ok, sempre lucida. E la mattina non vengono mai. È per questo che mi uccido un singolo giorno alla volta e solo di mattina. E loro credono che vada tutto bene, che la mia scelta sia dovuta al fatto che il mio lavoro fosse diventato troppo pesante. Non hanno capito che c’è altro dietro. E hanno accettato con noncuranza l’abbandono verso me stessa. In fin dei conti i vestiti vecchi e logori su un corpo osseo, i capelli castani con tanta ricrescita sale e pepe, crespi e sempre legati, il viso spento e senza trucco, gli occhi nocciola persi nel vuoto, per loro, sono solo la prova che sto invecchiando. Eppure li ho cresciuti io. Non dovrei essere trasparente come un vetro pulito di fresco. Ma forse non è colpa loro. Il fatto e che sono dannatamente abile.
Vado in cucina per riempire il bicchiere e lo sguardo esita sulle foto che mi ritraggono mentre faccio volontariato, dopo una cena con i colleghi della casa circondariale di Chieti. Momo, uno dei miei gatti, si struscia affettuoso e chiede qualcosa. Recupero un pezzo di spezzatino e glielo porgo. Arrivano i miei cani e prendo il contenitore, ne divido il contenuto nelle loro tre ciotole.
Dov’è finita tutta quella gente ora che sono ridotta così? Immagino che nessuno voglia vedere quanto non vuoi vivere. Ho perso 30 chili, forse perché nessuno mi vedeva e volevo avere prova di esistere provando a sparire. Volevo vedere se qualcuno… ma, l’unica cosa che ho ottenuto, penso aprendo il frigo e versandomi da bere, è che ora chiunque mi incontri comprende la penosa decadenza che ho scelto. Ma non tende la sua mano.
Ogni volta me ne vergogno. Cosa credevo di fare? Oggi vorrei solo disintegrarmi dallo sguardo delle persone. Vorrei avere la possibilità di essere una figurina ritoccata da vari filtri e sparire fisicamente. Vorrei che nessuno potesse incrociare mai più il mio sguardo reale.
Gli occhi cadono distrattamente sulla luce che filtra dalle fessure delle persiane. È primavera, e a giudicare dal tipo di luce fuori devono essere circa le nove. La luce cade in modo diverso a seconda delle stagioni, del tempo, dei fenomeni atmosferici. Non ho più bisogno nemmeno dell’orologio. Controllo, le nove e mezza.
Come sono arrivata fin qui?
Non saprei. Immagino di non aver avuto una vera famiglia e che dopo tutti i tentativi falliti di crearne una mia, modello mulino bianco, mi sono arresa. Ho raccattato dei cani che nessuno avrebbe voluto e ne ho fatto il mio alibi di bontà. Ho educato dei gatti bellicosi ad accettare i cani e le regole.
Mentre scrivo il meticcio dal carattere peggiore uggiola argomentando sulla chimica profondamente triste che esala la mia pelle. Davvero, Etna ha un olfatto invincibile. Le lacrime scendono in automatico. Credo che lui sia l’unico che vede davvero quanto voglio morire e si incazza.
Ho 3 cani taglia gigante, Etna, di un colore rossastro, Sparta, una femmina focata nero e Sigil, un molossoide candido.
Esco per loro, per farli giocare, per comprargli da mangiare.
Osservo i pochi immobili consunti intorno a me, quei mobili adattati a puzzle da diverse cucine mi somigliano, sono altrettanto disarmonici.
Etna uggiola disperazione, senza di me come potrà sopravvivere? Io piango e lo amo, ma non riesco a rialzarmi.
Solo per lui che riesce a vedermi davvero e non mi fa sentire patetica, resisto.
Come ci sono arrivata fin qui? Come ho potuto scegliere uno stallo senza audio, io che ho sacrificato ogni fibra di me per amore?
Capitolo 2
Quando suonano alla porta normalmente vogliono spillarmi soldi o infastidirmi con questioni che non mi riguardano. Nessuno mi vede, quindi, perché mai io dovrei preoccuparmi di qualcuno?
Etna, Sparta e Sigil partono come assassini e abbaiano. Un fischio sottile e si placano, un gesto e tornano nella , mia stanza.
Apro la porta e mi appare un tizio ingombrante, quasi mi verrebbe da sorridere, non fosse che mi guarda come un eroe, una specie di ultima spiaggia.
Il disagio per il contrasto tra le sue aspettative e la me patetica che apre la porta è forte.
«Paola Massaro?»
«Chi vuole saperlo?»
«Guardia zoofila Enpa?» rilancia ancora.
Lo fisso, sono rogne, me ne rendo conto in automatico. Anzi, lo sapevo già dall’espressione sollevata che gli ho visto in faccia appena ho aperto la porta.
«Ex» rispondo riferendomi a me, a Paola, non alla guardia zoofila.
«Non importa. Posso farle restituire subito l’abilitazione» ovviamente non ha capito. Mi sfugge un sorriso sarcastico, poi i miei occhi saettano sullo specchio del mobile dell’ingresso e mi accorgo che sembra una smorfia malvagia.
Mi sono distratta e la mano-pala si poggia sulla porta che ho tenuto socchiusa fino a un istante fa.
Spinge per aprire, io sposto il piede seccata e pronta a sfuriare: odio quando invadono i miei spazi, a parte i miei animali non ci voglio nessun’altro dentro.
Ma lui si inchina con una mano sul cuore, e io mi immobilizzo sentendo il dolore premere.
«La prego, ho bisogno di lei per un parere, per risolvere una situazione.»
Resto a fissare i capelli corti brizzolati quasi all’altezza del mio viso e solo in quel momento mi accorgo che è accompagnato da una seconda persona, un quarantenne come me, dai tratti regolari, vestito da biker.
«Lei, che piomba nella mia casa chiedendo aiuto come se fosse scontato che abbia voglia di darglielo, con i modi di un buttafuori, è…?»
Non volevo essere così caustica, ma sono già metà sbronza. Il mio filtro cervello-bocca è in ferie. Altri due bicchieri e avrei potuto finalmente dormire come desideravo. E invece no, io, l’invisibile, devo ancora salvare qualcuno.
Sento la frustrazione salire.

«Io sono Raffaele Criseo, lui è Matteo Fogari. Siamo rispettivamente i nuovi presidente e vice presidente di “Salviamo una zampa”. Matteo è anche il sostituto procuratore…»
Doloroso, è doloroso avere uno sbirro in casa, «Nuove leve, quindi. E ditemi, la signorina Vania, quella che faceva la raccolta alimentare per i randagi e poi rivendeva su eBay crocchette, collari e cucce per fare i cazzi suoi, è viva?»
«La prego» mi supplica l’omone, e mi pare sincero.
Fanculo. Avevo predisposto tutto. Apro la porta del tutto per farli entrare e mi volto senza una parola, stizzita, per fare strada verso il tavolaccio della cucina. Sospettosa, nel mentre controllo il telefono in tasca, perennemente muto, e, sentendo la mia porta di casa chiudersi, lo fisso inebetita. Trenta chiamate perse da due numeri sconosciuti.
Cioè, io sono scappata dalla mia casa, cambiato numero… a che pro?
«Siete stati voi a ingolfare il mio telefono di chiamate? Chi vi ha dato il mio numero. Ah, immagino che sia semplice per un sostituto proc…»
Il signore Raffaele mi interrompe, «Dottoressa,» esordisce conciliante, «avevamo davvero bisogno delle sue competenze. Davvero».
Dottoressa.
Il modo in cui si scusa, l’appellativo che usa, dissipa i fumi dell’alcool all’istante. Mi infurio sentendomi braccata nella mia tana.
«Signor Raffaele, mi illumini, chi diavolo è lei, davvero, per sapere del mio dottorato e, deduco, del mio ex lavoro?»
Intanto i cani, attratti dal mio tono alto sono accorsi abbaiando.
Li vedo arretrare un passo e restare immobili, ma non accennano a uscire. «Maledizione» sibilo.
«Dottoressa, se richiama i cani le spieghiamo tutto. Ci sono stati una serie di omicidi. Dei cani sono da abbattere, non capiamo ancora il modus operandi. I cani erano sotto la nostra tutela, in pensione e in attesa di adozione. La prego, ci ascolti.»
Dei cani. Il mio astio si frantuma. So che me ne pentirò. Lo so. “Quindi è così, destino, che cerchi di tardare la mia morte? Con una trappola fatta su misura per me?” penso.
Capitolo 3
Ho bisogno di caffè, e dopo aver calmato i cani, ho invitato i tizi a sedersi. Riesco a pensare solo a una cosa: non posso tornare ciò che ero o sarò costretta ad affrontare il passato. Non che non possa farlo, ma obiettivamente non ho voglia di scontrarmi con mio fratello. Immagino che se c’è stato un delitto, probabilmente se ne sta occupando lui, il favoloso ispettore Ennio Massaro, il cocco adorato del commissario e del questore. Peccato che quelle persone non sappiano quanto sia disonesto, bastardo e manipolatore. Da sempre la sua capacità dialettica ha sempre avuto la meglio sugli eventi reali.
Non avrei mai dovuto lavorare con lui, nella stessa Questura. Quello che era successo dopo, ossia che per ottenere la promozione a ispettore era stato in grado di trafugare delle informazioni mentre lei assisteva il loro padre morente, era stato prevedibile. A chiusura del funerale il caso era già risolto. Suo fratello Ennio aveva usato il frutto di indagini, interrogatori, prove… aveva solo riscritto il suo criminal profiling.
Mentre lei sceglieva il manifesto per il funerale del padre aveva montato ad arte la sua immagine di poliziotto geniale, capace di montare un criminal profiling meglio di lei, una criminologa, e senza avere nemmeno una laurea.
Poi tutto era accaduto rapidamente. Lei aveva perso l’incarico e la faccia. Poi si era ritrovata a sbrigare le conseguenze della morte del padre. L’ultima beffa era stata sapere dal testamento che tutti gli averi di famiglia erano stati dati al fratello. A lei erano toccato qualche spiccio.
Il gorgogliare della moka mi riporta al reale. Uno degli uomini ha detto qualcosa, ma non capito cosa. Li ignoro e preparo il vassoio, cerco lo zucchero. Ne ho…? Mi tremano le mani.
Ripenso alla vorticosa caduta della mia carriera, specie quando ho accusato mio fratello di aver trafugato il lavoro dallo studio e averlo spacciato per qualcosa che gli apparteneva. Aveva ricevuto ogni tipo pressioni per stare zitta. Poi, un giorno, lui le aveva mandato un’ambasciata mediante i suoi “amici”, quelli che facevano il lavoro sporco, e avevano dato fuoco alla sua auto e minacciato di uccidere i suoi figli.
Tutto si era fermato. Lei si era spezzata.
Il biker, come se fosse a casa sua, aprì lo sgocciolatoio e recuperò delle tazzine. «Lasci che la aiuti» sussurrò con un’espressione preoccupata.
Sento gli occhi lucidi. Quelle persone sanno del mio passato. Ho paura. Non voglio sapere cosa hanno da chiedermi, anche se in realtà, già ne immagino le conseguenze.