IL PENSIERO POLITICO DI DANTE ATTRAVERSO LE SUE OPERE
Parte Prima
Dante ha toccato tutti i temi relativi alla vita umana e non c’è sentimento, fenomeno anche scientifico, geografico e naturalistico che non abbia trattato. Quello che ce lo rende vicino perché, quando si affronta un poeta, è importante vederlo e sentirlo vicino a noi, è proprio il suo impegno in tutto quello che lui ha affrontato. L’impegno che lui mise in tutte le sue azioni è emblematico della sua figura, infatti non è un caso che i peccatori peggiori siano proprio gli ignavi, che lui definisce morti che mai fur vivi e condannati per il contrappasso, a correre incessantemente e dietro un drappo senza significato proprio loro, che non presero mai posizione per nulla.
E proprio la sua passione ancora oggi ne fa un esempio da seguire. Visse il suo tempo da protagonista e da intellettuale impegnato, tanto che si iscrisse alla corporazione dei medici e speziali, proprio per contribuire concretamente al governo della sua città, ricoprì cariche importanti, fu pure Priore.
La politica attiva caratterizzò la sua vita, insieme alla scrittura, che spesso fu lo strumento per sostenere divulgare le sue convinzioni, alla luce delle sue esperienze e fu quindi per lui uno strumento educativo. Potremmo dire che ogni sua opera testimoni questo impegno e quindi, se consideriamo la politica nel senso più nobile, aristotelico come impegno nella vita quotidiana, nella vita di cittadini, da un certo punto di vista, anche la Vita Novapotrebbe essere considerata un’opera con una sfumatura politica, perché, nel momento in cui lui scrive un’ opera mista di prosa e versi e le prose servono, in un certo senso anche a spiegare, ad approfondire i versi e se pensiamo che è scritta in volgare, e quindi presuppone un pubblico più ampio, perché ai dotti ci si rivolgeva in latino anche questa, se vogliamo, è testimonianza di un impegno che va oltre la poesia d’amore dello stilnovo.
Il Convivio è rivolto alla nuova borghesia cittadina, agli uomini e alle donne di animo nobile, scritta in volgare, che appunto testimonia come Dante creda fermamente nella necessità di avvicinare il suo pubblico al banchetto della cultura, alla conoscenza. E anche il De vulgari eloquentia, rivolto ai dotti e scritto in latino, è volto a dimostrare il valore del volgare illustre, lingua letteraria che dovrebbe essere usata dai dotti per i per i loro scritti. Anche quando lui definisce le caratteristiche del volgare illustre: cardinale, aulico curiale, in un certo senso ne sottolinea la portata politica, nel senso che era cardinale perché doveva essere come il cardine al quale afferiscono le lingue parlate in Italia, aulico e curiale, perché degna di essere parlata nella Curia e nell’Aula, cioè nei luoghi del potere e in questo senso si potrebbe vedere che Dante già pensi a un’unità culturale che possa essere base per l’unità politica del Paese.
L’interesse di Dante per la politica, però, si precisa nel trattato dottrinale De monarchia, in tre libri, in latino ed è l’unico trattato compiuto. La sua idea nasce dalla constatazione del logoramento delle due massime istituzioni del medioevo, l’Impero e il Papato. Il primo si era disinteressato dell’Italia perché era rimasto a occuparsi delle cose di Germania, permettendo così alla Chiesa e quindi al Papato, di occupare il conseguente vuoto politico, ma, facendo così, la Chiesa si era mondanizzata, era diventata praticamente vassalla della monarchia francese e aveva perduto la sua funzione di guida spirituale. Secondo Dante, proprio la decadenza di queste istituzioni aveva determinato l’abiezione in cui era caduta l’umanità, proprio perché era stata privata sia dalla guida temporale che da quella spirituale. E quindi, secondo la sua tesi, per riportare nel mondo la pace, quella pace positiva che non è un non guerra, non è una non presenza di armi, ma appunto è quella pace che tende allo sviluppo delle società, allo sviluppo dei popoli, con il sostegno alle istituzioni, all’istruzione, a tutte quelle cose che consentono un reale progresso morale civile. Quindi, secondo Dante, per riportare la pace nel mondo, la giustizia e i buoni costumi, era necessario che l’Impero restaurasse la sua funzione di guida temporale e che il Papa tornasse ad occuparsi del benessere spirituale dell’umanità. Questa tesi, la teoria dei due soli, viene tratteggiata proprio nel trattato: pertanto già da questo vediamo una grande novità pure per il suo tempo, perché Dante, (e questo gli costò pure l’accusa di eresia), sostiene la separazione dei due poteri. Secondo lui il potere imperiale deriva da Dio che provvidenzialmente la concesse al popolo romano che pacificò e unificò il mondo per renderlo adatto ad accogliere Cristo, tanto che la sede dell’Impero dovrebbe essere Roma. Tutto ciò consente al Papa di riprendere la sua funzione di pastore spirituale dell’umanità. E poiché le cose spirituali sono superiori a quelle terrene, l’Imperatore avrà un atteggiamento di reverenza nei confronti del Papa. Con questa affermazione Dante si salva dall’ accusa di eresia perché in un certo senso mantiene al Papa una funzione di preminenza.
Sono tutti argomenti che ritroviamo nella Divina Commediae che precisamente nel Paradiso nel sesto canto, saranno esemplificati nella figura di Giustiniano. Quindi l’azione delle due guide è complementare, pur essendo esse autonome l’una dall’altra.
Naturalmente è un’utopia, in cui si materializza il sogno di un uomo che vorrebbe vivere in un mondo senza corruzione e senza divisioni e che però non tiene conto della crisi inevitabile e irreversibile dei due Poteri, anche perché già in quel tempo stavano nascendo gli Stati nazionali. Ma è proprio da questo sogno che nasce l’ansia profetica della composizione della Commedia.
(continua)