Il Pane di Donna Marisa
Cecco aveva vinto la conta di quel sabato pomeriggio.
Per questo affondava sui pedali della bicicletta arrancando su per la costa che portava alla casa della signora Marisa. Sbuffava e sentiva la camicia appiccicarsi sulla pelle. Una goccia fastidiosa scese giù dalla tempia restando intrappolata sulla leggera peluria che si cominciava a formare agli angoli della bocca. Imboccò la stradina con a lato il muretto a secco e gettò la bicicletta sotto l’enorme gelso, con una mano poggiata sul tronco si liberò dalle scarpe, per non fare rumore sul ghiaietto del sentiero. Quasi strisciando sul muro della casa, raggiunse la finestra sul retro.
Si sentivano i rumori, a lui noti, provenire dall’interno: il respiro affannato della signora Marisa accompagnava dei tonfi che si susseguivano secondo un certo ritmo.
Cecco si acquattò sotto la finestra e lentamente estrasse lo specchietto che aveva in tasca. Cercò la giusta inclinazione e la inquadrò: donna Marisa che impastava il pane per la settimana!
Se la giocavano a sorte lui e i suoi amici.
Dove lo trovavi uno spettacolo così? Nemmeno al cinema.
Ne avevi per una settimana, per riempirti i sogni e per i racconti da far invidia ai compagni.
La signora Marisa affondava i pugni dentro la pasta molle stesa sul tavolo e tutte le volte che si chinava, dalla scollatura del vestito sbottonato comparivano due montagne sode e lisce. Cecco socchiuse gli occhi, si immaginò il viso fra quelle minne bianche e pensò a tutti i modi per morirci dentro.
Quel pomeriggio l’afa toglieva l’aria, dalla finestra aperta usciva la calura del forno acceso e il profumo del pane ancora in pasta si confondeva con gli odori dell’orto.
Quando Cecco riaprì gli occhi non vide più donna Marisa riflessa sullo specchio, qualcosa gli suggerì che c’era da stare attento. Infatti, udì dei passi farsi più vicini; il tempo di rotolare a pancia sotto dietro la siepe di rosmarino e la vide affacciarsi alla finestra. Si era tolta l’abito per il caldo ed era rimasta con una sottoveste tanto minuta, che sembrava quasi non avesse niente addosso.
La signora Marisa rimase a guardarsi intorno per un poco: ma quanto era bella, la carne pareva burro! Poi, con un fazzoletto prese ad asciugarsi il sudore dalla fronte, lentamente lo fece scivolare dietro la nuca inarcando il collo.
Cecco sentì che qualcosa nel suo essere stava per esplodere insieme al reggiseno della donna, che quasi non riusciva a contenere la generosità di tutto quel ben di dio.
La signora riprese a sventolarsi con il fazzoletto per poi posarselo sul petto e tamponare le ultime gocce di sudore. Sospirò e infine lasciò il fazzoletto sul davanzale per tornare alle faccende.
Fu un attimo; la mano di Cecco acchiappò il fazzoletto e lo mise nella tasca dei calzoni. Corse a inforcare la bicicletta e giù per la discesa a perdifiato verso il bosco.
Ansimante si distese sotto l’ombra di una quercia, al riparo dagli sguardi, finalmente estrasse il tesoro conquistato.
Lo aprì e lo posò sul viso beato e qui si perse fra un turbine di sapone da bucato, di violette, di pane, di femmina!